In questi giorni è venuto a mancare Natalino Russo di Seminara, ho avuto modo di leggere qualche suo post e tra quelli da lui pubblicati c'è un racconto che voglio riproporre in suo ricordo.
Non eravamo politici, magistrati,
forze di polizia e nemmeno giornalisti e quindi la nostra azione di
"Antimafia" (o anti-ndrangheta) potevamo esercitarla solo in satira,
parodiando cioè il gergo usato dai malandrini, al fine di renderlo grottesco e
coprirlo di ridicolo, la qual cosa a volte è più efficace della sterile repressione,
o dell'inesistente prevenzione. E, così, accadeva che noi parlassimo come i
membri dell'Onorata Società, anzi cosiddetta, giacché tutto era tranne che
onorata e più che una società faceva (e fa) pensare a un branco. Alcuni di noi studenti,
pertanto, presero l'abitudine di mettere alla berlina questo modo di parlare,
parodiandolo in modo grottesco, ridicolizzandolo e gonfiandolo a dismisura.
Uno dei campioni, diciamo un
Bartali, di questo tipo di parodia ero io. Il "Campionissimo", il
Coppi, però, era un mio compagno di classe, un certo Scutellà, originario di un
paesino (a memoria mi pare fosse Scido) situato ai piedi dell'Aspromonte,
mentre Seminara si trova un po' più in basso, in collina, ma non molto distante
dal mare. Esemplifico: mentre una persona normale si esprime così:
“Ciao come stai, a casa tutti bene?" e un'altra risponde:
"Sto bene grazie e lo stesso a casa, e tu?"; nel gergo di cui sopra questo breve scambio di
battute si dilata e diventa:
"Carissimo compare, mi onoro e mi pregio di chiedere alla Vostra riverita
persona notizie a riguardo di quel supremo bene che è la salute vostra e della
vostra pregiatissima famiglia, restando la mia persona personalmente, per
quanto poco valgo e poco posso, e per qualunque cosa vi occorre a vostra
completa disposizione"
E l'altro replicava :
"L'onore è tutto mio,il sottoscritto,la famiglia
e la "locale"(sarebbe
il controllo territoriale delle attività della congrega malavitosa) non hanno di che lamentarsi e stessa cosa
spero di voi e delle vostre, e ricambiando le belle parole delle quali mi avete
voluto onorare, mi dichiaro servo vostro, e per qualsiasi cosa disponete
altrettanto di me".
Il tutto, ovviamente in
"dialetto" (Per farvi meglio un'idea pensate a Catarella di
Montalbano nda).
Altra indispensabile premessa: Scutellà
era la classica maschera da teatro comico, basso, fisico tozzo, viso rotondo, sul
quale i peli rispuntavano ad un'ora dalla rasatura, capelli tagliati a
spazzola, anzi come si diceva a "spingulettuni" ed occhiali neri,
rotondi come il suo viso, con le lenti spesse come fondi di damigiana. Il suo
modo di parlare, inoltre era già pomposo di suo, barocco pieno di parole tra il
comico ed il surreale, se non proprio assurdo, anche nei discorsi di tutti i
giorni. Figurarsi quando ci aggiungeva la parodia. Era uno di quei tipi che
suscitano il riso anche quando pronunciano un'orazione funebre.
Fine delle premesse, entriamo nel
vivo.
Dove: Liceo classico Nicola Pizi
Palmi,
Quando: maggio 1967. Eravamo alle
prese con una versione dal greco, decisiva per le sorti scolastiche di quasi
tutta la classe. Mentre ero, dunque, intento a districarmi tra le insidie di
quella lingua bella e impossibile, venni colpito alla nuca da un proiettile, di
carta per fortuna, che poi terminò la sua corsa tra collo e camicia. Recuperarlo
non fu semplice, dopodiché lo srotolai e lessi :
"Carissimo compare, nonché magnificente amico,
mai vita di un uomo dipese da altro uomo, come la mia oggi da voi e dalla
vostra celeberrima generosità. Nelle vostre sante mani è riposto il mio
destino. Gli strali del mio severo genitore e le lamentazioni della querula
mammetta mi attendono insieme ad un'estate che vedrà il mio corpo riverso sui
libri e la mia mente persa a sognare il mare. Ma confido nella vostra bontà e
solidarietà di cui infinite volte mi avete dato prova. Aiutatemi, il foglio che
mi sta davanti è ancora bianco, come neve eterna di una montagna inviolata. Ed
eterna sarà la mia gratitudine se mi aiuterete a scriverci sopra la traduzione
di codesta maledettissima versione. Confido in voi e per qualunque cosa mi
metto al Vostro servizio. Disponete di me. Resto in trepidante attesa. Ci sarà
tempo, luogo e modo per sdebitarmi. E ritenendomi di già vostro debitore mi
firmo: Vostro Compare Scutellà.
Naturalmente sarebbe stato
sufficiente un laconico:"Passami la versione". Ma quella parodia era
ormai un tormentone acquisito e poi, il furbastro, scrivendo quel biglietto
aveva fatto credere alla Professoressa l'impressione di che stesse traducendo
la versione. Seguirono momenti di tensione. La Professoressa, si chiamava Genovesi
ed era di Reggio Calabria, infatti vigilava. Con molta circospezione e con la
massima fretta scrissi sul retro del suo biglietto la traduzione della
versione. Ci aggiunsi i soliti saluti "in gergo" e feci segno a
Scutellà che col pacco era pronto, il problema diventava quello di recapitarlo.
Gli mimai un treno,una nave, un aereo un'automobile ed un asino facendogli
capire che stava a lui scegliere il mezzo di trasporto più idoneo. Lui a sua
volta facendomi sbellicare dal ridere ri-mimò quei mezzi di trasporto scuotendo,
stavo per dire scutellando, il capoccione dopo ognuno di essi, in segno di un
no. Poi si toccò il petto e fece l'occhiolino come per dire "Ma vidu jeu"
in milanese "Ghe pensi mi" in italiano "Provvedo io".
La Professoressa notò la parte
finale di quello scambio di smorfie e ci richiamò:
"Cari muti di Sorrento è ora
di finirla, sembrate due scemi". In quell'aula immersa in un silenzio
irreale e carica di tensione risuonò stentorea, dopo pochi secondi la voce di
Scutellà:"Grazie,anche a nome di mio compare, per aver detto sembrate e
non siete. Già che ci siamo posso aver da Ella, gentile Professoressa, il
permesso, indifferibile e meno che mai delegabile, di recarmi alla toilette
?".
"Dove, magari c'è pronto ad
attenderti un foglio con la traduzione vero?". Disse la professoressa.
"Ella mi offende
grandemente, non fossi, come grazie a Dio sono, il ragazzo dabbene che sono…”
"Pe quantu si 'ndranghitista
ti cumpundi" gli gridò un compagno, beccandosi una rispostaccia per lesa maestà:"Puru
i pulici hannu a tussi, taci villico, troglodita, vermiciattolo, e scusami se
ti vanto, che non sei altro, poca confidenza” lo fulminò Scutellà, che rivolgendosi
nuovamente alla Signorina Genovesi, che lo invitava a moderare i termini
riprese:
"Ha ragione non dovevo
scusarmi.. dicevo che, appunto, educazione e rispetto mi impediscono di
profferire parole tanto scortesi riguardo alla sua persona".
"O è la paura di essere bocciato?
Intanto quelle parole promettendo di non dirmele, me le hai dette, comunque per
tagliare la testa al toro, il permesso è accordato".
Scutellà, commentando
"povero toro", partì in missione. Tre minuti ed era di ritorno;
passò, inchinandosi, davanti alla cattedra. Per giungere al suo banco, doveva
passare davanti al mio, quando fu a due metri da me aprì la giacca, prima tutta
abbottonata, e sotto apparve la bocca spalancata di un borsello che aveva cinto
alla vita. Piegando l'indice nel gesto mi fece capire di dare il biglietto in
pasto al borsello che aveva fame.
Io, coperto alla vista della
professoressa dal suo voluminoso corpo, vi lanciai dentro il foglietto
appallottolato con la versione tradotta:
"Bravo -disse- bel tiro
libero, a buon rendere".
"Prego, mio dovere e
privilegio - dissi io.
"Cosa succede?" gridò
l'insegnante rivolta a noi.
"Niente, Signorina parlavamo
di basket, volgarmente detta pallacanestro" si giustificò pronto Scutellà.
All'uscita di scuola confrontammo
gli "elaborati", come li chiamava
l'insegnante, con quelli dei più bravi della classe, Lillo Scionti e Giancarlo
Della Mura, e avendo verificato che non se ne discostavano di molto, ci
sentimmo tutti la promozione in tasca.
Scutellà per primo, che prese a
cantare, anticipando il Piero Focaccia di qualche anno dopo: "Per quest'anno si può andare, ci
vediamo tutti al mare, tutti a mollo o sul pattino, ringraziando Natalino",
e quindi stampando baci sulle guance (precursore di Totò Cuffaro detto “Vasa Vasa”,
al quale, ripensandoci un po' somigliava) e profondendosi in abbracci e pacche
sulle spalle, a tutti, e a me, "il suo salvatore", più degli altri.
Otto giorni dopo, tanto durò la camera di consiglio, la professoressa giunse in
classe col borsone: significava che la sentenza era pronta. Ottenuto con non
poca fatica il silenzio diede inizio al rito, che ormai conoscevamo bene. Prima
lesse a voce alta i voti ottenuti da ciascuno, dopo, come d'abitudine, avrebbe
letto il migliore ed il peggiore degli "elaborati" a mo' di esempi da
emulare, o di errori da evitare. I due fuoriclasse, intesi nel senso di
campioni scolastici, perché in senso letterale i più fuoriclasse di tutti
eravamo proprio io e Scutellà, che spesso dalla classe venivamo buttati fuori,
ebbero entrambi un nove tondo tondo. A seguire ci furono voti tra il sette e il
cinque, e un paio di due (a compagni che avevano consegnato il foglio in
bianco).
Io ebbi sei e mezzo. Quando, dopo
qualche istante la professoressa fece seguire, al nome Scutellà, il numero
"quattro seguito da meno meno " la scala Richter e la scala Mercalli
si fusero per registrare un terremoto al quindicesimo grado. Contestazioni,
proteste, urla, insulti, epiteti come "spia“e "traditore"
riempirono l'aula. Sembravano le urla di una folla
e, invece, a gridare era solo
uno, lui: Scutellà, pazzo e paonazzo, al limite del collasso e il destinatario
di tutti quei "complimenti" ero io.
L'insegnante ci mise poco a
dedurre che qualcuno aveva copiato da qualcun altro.
E che questi due fossero Scutellà
e il sottoscritto, lo ebbe per certo, quando il mio "compare", dopo
essersi fatto ripetere il suo voto, quattro meno-meno, volle che venisse
ripetuto anche quello assegnato a me e cioè sei e mezzo, urlò passando dal
gergo della "ndrangheta" calabrese a quello della mafia di Sicilia :
"Meschina
e intollerabile disparità di giudizio ci fu, bedda matri ".
Io mi arrabbiai molto con
Scutellà, che, così facendo mi tradiva, e lui con me perché, a sua volta si
sentiva tradito. La professoressa volle dargli soddisfazione e, riportata con
molta difficoltà la calma nella classe, comunicò che avrebbe letto non più le
versioni prima ed ultima in classifica, ma quelle incriminate di "Russo
massimo il traditore" e Scutellà Minimo il tradito" cosi ci appellò,
parafrasando il famoso Fabio Massimo il Temporeggiatore.
Ripescò dalla mazzetta i corpi
del reato, si schiarì la voce e cominciò a declamare, con voce stentorea, la
mia traduzione, che parola più parola meno, suonava cosi:
"Pericle non tralasciava occasione per ripetere
agli Ateniesi come la democrazia, cioè il governo del popolo, fosse la
soluzione politica ideale da preferirsi senza alcun dubbio all'Oligarchia, il
governo di pochi, ed alla monarchia, il governo di uno solo, e massimamente al
più perverso e dannoso dei sistemi politici, la dittatura, fonte infinita di ingiustizie,
miseria, violenze e guerre. La storia dei popoli era la più valida
dimostrazione della giustezza di quanto andava affermando. Solo la democrazia,
con il suo complesso di leggi, diritti e doveri, porta alla pace, alla
giustizia, al benessere, nella libertà. Questo non avviene con le altre forme
di governo non legittimate dalla volontà del popolo. Vigila, dunque popolo. A
te e a nessun altro appartiene la sovranità. Dimostra saggezza e perseveranza
nella giustizia.......".
L'Insegnante si fermò per prendere fiato e , dopo qualche attimo, cominciò a
leggere la versione di Scutellà, la quale pur se con termini diversi , avendo
io usato io dei sinonimi perché non sembrasse copiata, ricalcava quella mia.
Scutellà, rinvigorito da questo, si alzò, fece qualche passo verso la cattedra
e le disse:
"Mi permetto di farle notare, gentile Signorina,
la stupefacente attualità di questo discorso, e modestamente la mia impeccabile
traduzione del pensiero di Pericle, che si complimenterebbe con me, se fosse
oggi qui con noi e come avrà potuto notare non si ravvede nelle due versioni
una differenza tale da determinare oltre due punti e mezzo di differenza nel
giudizio, ora spero si ravveda Lei e mi dia il dovuto". Era tornato lo Scutellà di sempre, calmo, ironico e fantasioso.
Un vero istrione. Ma fu la quiete che precede la tempesta, o, come diciamo a
Seminara " a megghiuria prima da
morti".
Da stentorea infatti la voce
della Professoressa divenne tuonante e i suoi occhi lampeggianti. "Calma, non è un'interrogazione orale
e non siamo in Parlamento. Quanto all'impeccabilità della traduzione e ai
complimenti che Pericle potrebbe farti, ne converrei e mi ravvederei se tu ti
fossi fermato qui, caro Scutellà, ma ora dovresti usare la tua magniloquenza
per spiegare a me e alla classe, quando mai Pericle disse le parole che tu gli
hai messo in bocca, trasferendoli poi nel tuo compito e che vado a leggere, se
avrai la compiacenza di tornare al tuo posto, di sederti e di tenere chiusa
quella tua velenosa eimprudente boccuccia".
Scutellà obbedì e lei riprese a
leggere le parole scritte da Scutellà sul finire della traduzione:
"Non esisterebbe quel bene supremo che si chiama
amicizia, senza la disponibilità ad aiutarsi, soprattutto nel momento del
bisogno e del pericolo, l'uno con l'altro, anche correndo gravi rischi, voi
avete confidato in me ed io mi sento onorato di servirvi. Gli uomini sono
uomini o sono niente e niente, se non la vostra benevolenza, mi dovete per
quello che considero un mio dovere fare per voi. Alla nostra cara ed imperitura
amicizia".
Io compresi cos'era accaduto fin
dalla prima parola "messa in bocca" a Pericle. Scutellà, stravolto,
sudato, paonazzo, col dito indice tra le labbra come l'omino di "Lascia o
raddoppia", solo dopo l'ultima. I compagni e la professoressa solamente
quando, indeciso se infuriarmi o scoppiare a ridere, gridai verso il mio
simpatico comparuccio:
" Stupido, quelli erano i miei saluti, non parole
di Pericle, mi sono giocato le vacanze anche io per la tua maccarronaggine
".
"La
prossima volta, coso fetusillico, ci metti un punto grosso come una casa e vai
a capo, susino dei calosci"- grugnì
lui che aveva riperso il"sense of humour”.
Io gridai davvero fuori dalla
grazia di Dio:
"Non ci sarà una prossima, scimpanzé col tam-tam!
Vai a far del bene".
Il bene, dopo che si spensero le
risate di tutta la classe, insegnante in testa, ce lo fece quest'ultima, che
tolse di bocca a Pericle e dall'elaborato di Scutellà le frasi
"incriminate" e assegnò a entrambi un 6, sufficiente per la
promozione.
"Per una volta, disse derogo da quello che sarebbe il mio dovere, cioè
punirvi con un bel 2, onde evitare che Pericle entri da quella porta e vi
prenda a pedate nel sedere e anche perché mai ho riso tanto in vita mia. Faccio
come quel tale che non punì il famoso Chichibìo, perché, con la risposta sulla
gru, l'aveva fatto morire dal ridere. Dovete però giurarmi che quanto avvenuto
rimarrà un segreto della nostra classe e che non si ripeterà in futuro".
Giurammo. E riportammo alla
superficie dei nostri volti quelle risate che avevamo messo a covare sotto la
cenere. Quanto ridemmo! Prima di lasciare la classe, quando era già sulla porta
la Signorina Genovesi si voltò e disse:
"Comparucci, un consiglio per ora e per il
futuro: parlate come mangiate".
Scutellà volle l'ultima battuta:
" Non mi preoccupava tanto il quattro Signorina
ma il meno-meno, che sarebbe stato per mio padre l'indicativo presente del
verbo menare, io il complemento oggetto e un nerbo di bue il complemento di
mezzo. Grazie, quindi, anche a nome della mia schiena".
Dal giorno appresso, e fino al
termine del corso di studi, io e Scutellà, incontrandoci o conversando, ci
limitammo a dei semplici "ciao", senza aggiungere, a scanso di
equivoci, nemmeno il classico: " Come va?".
Il linguaggio dei boss lo
lasciammo ai boss. Quello barocco, tipico di chi parla molto per non dire
nulla, lo lasciammo ai politici. Tutti comunque, da quel momento, incrociando
Scutellà, non riuscivano a non dirgli: " Pericle si complimenta con te e
ti manda i suoi saluti".
E la sua replica era sempre la stessa:
" Non conosco codesto infame, mai visto o sentito
nominare!
Grande Scutellà. Grandissimo!
Il mio Capo della DIA ad honorem.
Non
per nulla, da allora in poi, la "Ndrangheta" senza più la nostra
satira a frenarla, emerse in tutto il suo potere.