domenica 15 gennaio 2023

Jimu e 'ballamu a "Pana"!



Non so quanti di voi, cari amici, abbiano avuto modo di usare o di ascoltare il modo di dire:

 “sì, ora jimu e ballamu a pana!”: un’affermazione dal sapore canzonatorio per rispondere a coloro   che rappresentano un evento come se fosse una mirabilia.

Es:

-       Si maritau a figghja du sindacu! (affermazione)

-       Eh, ora jimu e ballamu a pana!   (risposta)

Diciamo che potrebbe essere accostato come senso del discorso all’intercalare romano “esticazzi!”

Sono stato sempre incuriosito e ho cercato di trovare a più riprese l’origine di questo modo di dire abbastanza raro e dimenticato e dopo aver spulciato nei vari testi con scarso risultato (nemmeno il Rolfhs ne riporta il termine) mi sono imbattuto nel termine PANAGIA di cui la Treccani riporta il significato in questi termini:

 

panàgia (o panàghia) agg. e s. f. [dal gr. παναγία, femm. di πανάγιος, comp. di παν- «pan-» e γιος «santo»]. – Tutta santa, santissima: è l’appellativo dato a Maria Vergine nella Chiesa ortodossa. Anche, l’immagine della Madonna, raffigurata in dipinti, in icone o in medaglioni.

 

Si può ipotizzare che l’origine del modo di dire possa essere riferito ai balli per la festa di “Madonna”, specie quelli tenuti a Reggio Calabria in occasione della Festa i “ Maronna” della Consolazione dove è d'uso ballare la tradizionale tarantella in Piazza del Duomo o in Piazza Italia e fuori dalla Chiesa dell'Eremo prima e dopo la Santa Messa notturna. Il mio è un azzardo, se qualcuno di voi avesse altri elementi per confermare o smentire questa ipotesi sarei felice di apprenderne le tesi. Al momento questa spiegazione mi appare la più verosimile.




 

martedì 10 gennaio 2023

"Se non sono gigli..."




 

Certo che dava all’occhio, indossava spesso pantaloni a “ciampa di elefante” camicia di jeans sbottonata fino allo sterno, con collana bene in vista, e si ammantava di un alone di “gagarino”. Capelli sul rossiccio e lentiggini in evidenza sul volto. Aria nordica da mezzo irlandese, ma di nordico aveva solo il vaglia che gli arrivava puntualmente da Londra. A inviarlo era la madre. La donna ci viveva da diversi anni nella terra di Albione ed era occupata come governante in un albergo. Gianni non aveva voluto seguirla, c’era stato qualche volta, a Londra, ma prediligeva il paese. Aveva preferito rimanere col nonno in una dimensione molto più discreta e paesana. Di tanto in tanto svolgeva lavoretti come “battilamera”, non una cosa continuativa. Si era approcciato al mestiere come ragazzo di bottega e riprendeva a lavorare quando c’erano dei picchi di lavoro. Non aveva la necessità di guadagnare dei danari per vivere; il nonno era pensionato e al resto ci pensava la mamma; del padre non si sapeva nulla; forse i suoi erano separati o forse gli era morto, non ne parlava mai. 

In paese era considerato dai più uno sfaccendato; lui ne era conscio, ma poco gli importava del pensiero dei benpensanti di maniera, né gli pesava sentirsi ai margini della socialità paesana. In un paese dove alla grande e alla piccola borghesia interessava poco sapere di coloro che per svariati motivi si erano trovati a camminare nel solco dell’anticonformismo, e Gianni quel sentiero l’aveva scelto e l’aveva fatto suo. Forse era anche una reazione per timidezza o paura di non sentirsi all’altezza del pensiero dominante. Diveniva stravagante nei modi di vestire e di vivere la sua piccola e abituale quotidianità.

A vent’anni si ha ancora tanto tempo per decidere cosa fare della propria vita e Gianni voleva avere ancora del tempo per decidere del suo futuro, nessuno gli correva dietro, neppure i bisogni.

Una notte fu svegliato si soprassalto e catapultato davanti alla scrivania del Commissario di Palmi: un testimone, che aveva assistito a un sequestro di persona, aveva indicato un ragazzo dai capelli rossicci e con lentiggini sul viso come uno dei sequestratori. 

I fatti: un ingegnere reggino mentre rientrava a casa in compagnia di due operai (un uomo e una donna) dopo una giornata di lavoro nel suo podere venne bloccato e prelevato dall’auto dove era alla guida da quattro individui col volto coperto da passamontagna. Durante la colluttazione l’uomo era riuscito a scoprire mezzo volto di uno dei sequestratori e la donna che era seduta nel sedile posteriore aveva notato che il giovane aveva i capelli rossicci e lentiggini sulle gote.

Gli inquirenti fecero in fretta a individuare in Gianni quel giovane con quelle caratteristiche fisiche.

A questo particolare si aggiunse l’alone di nullafacente che lo accompagnava da sempre, un combinato disposto deflagrante, per indurre gli inquirenti a pensare che uno dei sequestratori fosse il giovane rossino.

Il perbenismo paesano galoppò tronfio, vittorioso per aver sempre immaginato, e stavolta a ragion veduta, che quel ragazzo schivo, sui generis e vagabondo non poteva condurre una vita normale senza uno straccio di lavoro.

Furono anni tristi per lui, si era ritrovato chiuso in una cella a scontare anni di galera per una pena frutto di un processo che si doveva ancora celebrare. 

Riacquistò la libertà per decorrenza termini e perché nel frattempo gli inquirenti per altre vie erano arrivati a individuare i veri colpevoli del reato. 

Fu un giorno di agosto che ci trovammo seduti nello scalone della barberia di Turi, un pomeriggio assolato in un paese desolato; lui in compagnia della sua solitudine e io in attesa di riprendere il turno pomeridiano di lavoro. Ci trovammo a commentare la campagna acquisti del Milan, la fede calcistica ci accomunava e che negli ultimi tempi aveva smosso una simpatia reciproca.

Non fece fatica a raccontarmi la sua odissea, le vicende vissute e subite durante gli interrogatori e in carcere.

-Volevano a tutti i costi i nomi degli altri – mi disse abbassando lo sguardo – ma cosa potevo confessare se di quella storia non ne sapevo nulla-.

Il suo volto divenne sempre più serio e malinconico, si levò gli occhiali e mi indicò l’occhio destro:

-Lo vedi questo occhio? Ecco …fa solo scena, io non ci vedo più…-

Era stato un colpo maldestro di qualcuno che voleva estorcergli segreti inesistenti a causare la perdita della vista; e non erano stati sufficienti i suoi pianti mentre gridava la sua innocenza a fermare le mani di chi si sentiva certo di avere davanti a sé un malavitoso di comprovata pericolosità.

Mi disse pure che le sue costole avevano subito delle fratture e che il braccio sinistro aveva perso la normale mobilità per via delle botte subite. 

Mi rattristai, il suo racconto a cuore aperto mi aveva dato la possibilità di esplorare il suo mondo, di accedere nella sua sfera personale e scrutare gli eventi da un altro punto di vista. 

L’aria da guascone che lo aveva accompagnato nei tempi passati l’aveva abbandonato, aveva cercato di riprendere le trame ormai sparigliate della sua vita ed era tornato a rintanarsi nel suo cantuccio e senza “fanfarie” con l’intento di difendere la sua dignità. 

Dedussi che mi aveva narrato la sua storia non per sollecitare la mia compassione, non era il tipo, ma intuì invece che il suo sfogo fosse naturale e spontaneo ed era certo che io l’avrei accolto senza il condizionamento del pregiudizio. 

Fui amico suo insieme a pochi altri per il tempo che rimasi in paese. Poi andai via.

Dopo tanti anni, appresi la notizia della sua morte.

Si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato e un pallettone, solo uno, indirizzato a colui che era insieme a lui gli aveva fatto saltare il cuore. 

Che strana la vita, pensai: la prima disavventura l’ha vissuta per NON essere stato nel posto sbagliato al momento sbagliato, ora ha chiuso i suoi giorni per essersi trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

È la combinazione dei momenti a determinare le nostre scelte e i nostri percorsi, il problema è che spesso ignoriamo le combinazioni.

Ogni anno dei Morti mi fermo davanti alla sua tomba, si trova all’ultima “rasula” nell’angolo più remoto del cimitero, sembra quasi l’abbia scelto lui in linea per come aveva vissuto discreto e ai margini. 

 

“Se tu penserai e giudicherai
Da buon borghese
Li condannerai a cinquemila anni
Più le spese
Ma se capirai se li cercherai
Fino in fondo
Se non sono gigli son pur sempre figli
Vittime di questo mondo”

( De André)

 

venerdì 4 novembre 2022

Il commissario Camilleri e Salvo Montalbano



Il commissario Montalbano è nato dalla penna e dalla storia personale di Andrea Camilleri. 

A suggerire la figura del personaggio interpretato da Zingaretti sarà stato certamente lo zio dello scrittore siciliano Carmelo Camilleri, negli anni ’30 vicecommissario di Polizia a Milano. 

Il fatto:

il 12 aprile 1928, giorno previsto per l’inaugurazione della Fiera Campionaria in presenza del Re, lo scoppio di una bomba posizionata alla base di un lampione in ghisa provocò la morte di 14 persone e il ferimento di altre 50. 

Una strage. La Milizia fascista si dà subito da fare per cercare i responsabili e indirizza la sua attenzione verso i nuclei comunisti e anarchici. Viene fermato Romolo Tranquilli, militante comunista e fratello del più famoso Secondino Tranquilli (conosciuto dai più con lo pseudonimo Ignazio Silone) al quale trovano in tasca una rudimentale mappa che indica la piazza dove era posizionata la Fontana delle Quattro Stagioni, per pura coincidenza il punto dello scoppio. In effetti quella traccia di mappa gli era servita per raggiungere il luogo in cui quel giorno si doveva incontrare con Luigi Longo (futuro segretario del PCI).

Tranquilli viene arrestato insieme ad altri sei militanti comunisti; ma dopo poco tutti vengono scagionati poiché il vicecommissario di Polizia Carmelo Camilleri riscontra in maniera oggettiva che gli alibi che forniscono sono sufficienti a non prolungare lo stato di fermo.

La Milizia e i maggiorenti fascisti milanesi fanno in modo che i fermati non siano rilasciati contestando loro il reato di ricostituzione del Partito Comunista e “incitamento all’odio delle classi”.

Vengono così condannati a 12 anni di carcere. Tranquilli muore dopo tre anni nel carcere di Procida.

Non paghi di quelle condanne i fascisti milanesi con in testa Francesco Nudi (Capo dell’OVRA: Opera Volontaria Repressione Antifascista) cercano ancora i responsabili della strage e dopo una presunta soffiata vengono arrestati tutti i dirigenti di Giustizia e Libertà, tra cui Umberto Ceva, un chimico a cui viene mossa l’accusa di aver preparato l’esplosivo. Ceva si suicida nel carcere di Regina Coeli lasciando un biglietto in cui c’è scritto: “Non ho mai fatto nulla, non ho visto nulla, non ho saputo che altri abbia fatto del male a creatura umana”. 

Solo dopo tanti anni (fu Mussolini stesso a voler chiudere quell’inchiesta) maturano dei sospetti e la quasi certezza che la strage della Fiera sia stata il frutto dello scontro tra fazioni nella lotta per questione di potere ai vertici del fascismo.

Da un’intercettazione tra Bocchini (potente fascista, spesso definito Viceduce) e Nudi (OVRA) trapela il sospetto che dietro l’attentato vi sia la mano e un progetto del gerarca Farinacci acerrimo nemico del Federale di Milano Mario Giampaoli e del Podestà Belloni, tutti uomini del fratello del Duce, Arnaldo.

Il vicecommissario Camilleri ha in mano degli elementi inconfutabili che lo portano a nutrire seri sospetti su Giampaoli. Chiede l’autorizzazione al Tribunale Speciale per continuare le indagini ma gli viene negata.

A fronte di questo diniego e alla convinzione che non c’è la volontà da parte dei vertici del Partito Fascista di far venire a galla la verità, rassegna le dimissioni dalla Polizia e poco dopo sarà condannato a cinque anni di confino.

Nulla di nuovo, potremmo dire oggi.


(fonte La storia e idee)

 

giovedì 20 ottobre 2022

Travolti da un insolito destino in una calda serata di agosto..

( immagine di repertorio: Rodolfo, Massimo, Turi Donia, Turi Lentini e Nino)
 

Era una di quelle serate estive, caotiche, in cui pensi, senza dirlo: “Ma quando vanno via tutti per poter stare un po' in pace, seduti su una panchina?”

Questo era il mio pensiero e, suppongo, anche di Rodolfo. 

Nell’ultimo tratto del corso, quello che costeggia la piazza, avevamo smesso di parlare. Non si poteva passeggiare come solevamo fare noi; uno sciame vociante di passeggiatori avventizi, richiamato dalla festa in onore della Madonna Annunziata, affollava il centro del paese. 

 Rodolfo e io ci guardavamo con stupore e qualche filo di rigetto. Non era una delle nostre serate. Noi eravamo abituati ad altro. Non dico che detestavamo la presenza di quella gente festante ma eravamo abituati alle serate sulagne in qualche pizzo di piazza, stravaccati col corpo e i pensieri intenti a rinverdire i racconti messinesi di Rodolfo su ciò che era solito accadere nel crociccio del bar Venuti di Messina, delle gesta della Ràpina, bizzarro amico di “Dolfo”, e di quanto capitava nell’ambito della compagnia oppidese che occupava oziante quell’appartamento in via Tommaso Cannizzaro. 

Erano tutti universitari, una combriccola bene assortita dove spiccava la massiccia presenza di Saveri “Petrolio”. Gli altri non erano da meno e Dolfo, tra tutti, era il vero regista, il genio, il re della coglionella con “C” maiuscola. 

Solo in pochi riuscivamo a leggere, tra le pieghe del suo volto e le occhiate performanti, i momenti di rara serietà. Intesa coltivata per anni, la nostra, e affinata al punto che bastava un cenno con la coda dell’occhio per intuire in quale modalità vivere le situazioni che si paravano davanti.

Anche quella sera d’agosto avevamo gironzolato in cerca di qualcuno anche e solo per un fugace “nzuppamento di tiralla” ma le circostanze non avevano giocato a nostro favore; erano tutti distratti dal clima festoso e dalla musica che riempiva ogni spazio. 

Dolfo e io ci sedemmo, quasi sconsolati, sullo scalone d’accesso al palazzo Zerbi, poco sotto il bar Caratozzolo, inaugurato all’inizio di quell’estate. Quello scalone del primo palazzo costruito nel 1793, dieci anni dopo il terremoto che aveva distrutto la vecchia Oppido, era un po' il rifugio di chi voleva stare in disparte ma nello stesso tempo il punto strategico per garantirsi un controllo sommario e osservare cosa accadesse in piazza.

La noia si stava impadronendo di entrambi quando con somma nostra sorpresa arrivò, intenzionato a sedersi tra noi, Alfredo. Era giovane imbianchino, “credulone e romantico” per dirla alla De Gregori; un ragazzo molto schivo con i più ma disponibile e scialone con noi. 

- Mi fate spazio? – ci chiese.

- Certo- rispondemmo all’unisono, mentre i nostri sguardi si incrociavano meravigliati. 

Pensai: “Cristo affligge ma non abbandona” e qualcosa di simile pensò sicuramente anche Dolfo; lo lessi nell’espressione del suo volto.

Non ci parve vero; l’arrivo di Alfredo fu come una “botta scura”, quel roboante mortaretto che la mattina della festa sveglia dal torpore tutta la cittadinanza per annunciarne l’inizio. 

Si accomodò tra noi, proprio al centro dello scalone, e cominciò a sbirciare tutte le ragazze che procedevano in direzione della piazza dove il “passeggio” faceva capolinea. 

Con Dolfo continuammo a chiacchierare come se nulla fosse. Dovevamo apparecchiare con calma e tirare nella “rizza” Alfredo, che sicuramente non si sarebbe risparmiato aggiornandoci sui suoi progetti strampalati e sulle varie aspirazioni, tra cui quella di divenire un attore; era una ossessione di cui eravamo già a conoscenza e che qualche anno prima lo aveva reso vittima di una colossale carretta.

Il portone si aprì di botto. Ci girammo alzando lo sguardo e ci apparve la sagoma di un signore di minuta corporatura, baffi sul castano chiaro, occhi arrossati e gonfi, capelli in disordine e un “muffo” al collo che gli conferiva una vaga e ruspante somiglianza con Salvador Dalì. 

Ci guardò e, mentre Alfredo si scostava per liberare il passaggio, disse:

- La mi scusate, signori! Devo passare-

L’accento toscano mi diede conferma che quell’uomo, che teneva in mano una tela appena dipinta, era il “pittore” Giametti. Tale si definiva - non so fino a che punto a ragione- e tale era considerato da noi ingenui paesanotti.

 Lo conoscevo; l’avevo visto più volte, durante le estati precedenti, ospite della signora Mancini - ultima inquilina di quel palazzo - a cui lo legava un qualche grado di parentela. Si era fatto notare in diverse occasioni anche nei bar del paese; era un fine degustatore di Vecchia Romagna, il brandy dalla bottiglia triangolare, e dalla postura che assumeva quando deambulava si poteva intuire che non disprezzava gli altri tipi di bottiglie. 

Insomma, un artista che trovava in Bacco la scintilla dell’ispirazione. 

Giametti individuò il varco e, mentre con passo incerto cercò di portarsi sul marciapiede, strusciò con la pittura a olio della tela appena ultimata la camicia di Alfredo, proprio all’altezza della spalla. 

- La mi scusi, signore! Non volevo – esclamò Giametti.

- Non si preoccupi – rispose Alfredo, mentre cercava di valutare il danno subito. In effetti lo struscio aveva lasciato un alone di colore scuro, ma decisamente contenuto, da poter facilmente rimuovere con un fazzolettino di carta inumidito. 

Alfredo aveva già stimato un’inezia quella macchiolina, che sarebbe bastato poco per far andare via e  Giametti, sempre riverente nei suoi confronti ,  ribadendo mille scuse si avviò in direzione del bar Caratozzolo per consegnare il quadro che aveva dipinto su commissione e rappresentava in prospettiva Piazza Umberto I. 

Con Dolfo incrociammo gli sguardi e, in maniera tacita, a suon di occhiate stabilimmo che quella poteva e doveva essere la scintilla per ravvivare una serata fino a quel momento noiosa. 

- Alfredo, fammi vedere – chiese Dolfo.

L’altro girò la spalla, Dolfo scrutò la camicia nella parte lesa e con un mugugno dubbioso esclamò:

- Alfredo, il danno è fatto. La pittura a olio è un insieme di pigmenti che, mischiati con l’olio di lino, diventano devastanti e difficili da rimuovere.

Dolfo, dall’alto delle sue fantomatiche competenze in materia, aveva sentenziato. Alfredo seguì con attenzione le sue elucubrazioni e divenne serio.

- Già! – ripresi io – Dimenticavo che la pittura a olio presenta questi rischi. Fosse stata acrilica l’avresti potuta rimuovere con una “sputazzata” ma, come dice Dolfo, che è esperto in materia visto che suo fratello è scultore, questo è un danno permanente.

Alfredo seguì le nostre tesi alternando l’attenzione con le movenze di uno spettatore che assiste a una partita di tennis. Le teorie inventate al momento trovavano terreno fertile e ce ne accorgevamo dai suoi sguardi preoccupati.

- Alfredo, sei stato fesso! – incalzò Dolfo – Dovevi chiedere il risarcimento del danno!  I pittori sembrano degli scalzacani ma loro tengono “la nicula”. 

E, senza mollare la preda, continuò - Hai visto dove è entrato?  Dai Caratozzolo! Loro gli hanno commissionato il quadro che minimo minimo pagheranno dai due ai tre milioni. Io l’ho guardato il quadro, è una tela 40x50 con diverse campiture. Sono questi dettagli tecnici che danno valore all’opera, oltre al fatto che Giametti, quando allestisce una personale, incassa dai cinquanta ai sessanta milioni; ne fa sei in un anno, immagina un po' che conto in banca avrà.

Dolfo aveva rotto gli argini, stava sorprendendo anche me per tutte le minchiate che aveva sciorinato come certissime conoscenze tecniche, ingigantendo oltre misura la figura dell’ignaro pittore toscano, il quale molto probabilmente si era offerto di dipingere quella tela in cambio di qualche bevuta gratis.

- Ha ragione Dolfo – mi intromisi- i pittori contraggono tutti delle assicurazioni per coprire i danni arrecati a terzi. 

- A terzi? – chiese Alfredo.

-Sì, a terzi- rintuzzai – I terzi siamo noi, gli estranei. Considera che una volta Enzo Guida mi disse che un pittore di Taurianova ha sottoscritto una polizza di trecento milioni per fare fronte a eventuali penali per danni causati a terzi-.

- Ma voi non avete subito il danno! La camicia è mia! – disse convinto. 

Trattenemmo a stento una risata che sarebbe stata liberatoria ma non potevamo chiuderla così. Non si sapeva dove saremmo andati ad approdare ma c’era ancora da fare; avevo persino scomodato il principe degli assicuratori oppidesi, per rendere pregnante la teoria del risarcimento.

Ormai avevamo la certezza che tutte quelle astruse teorie tecniche e di diritto avevano fatto breccia nella testa di Alfredo, prova ne era il suo grugno che diveniva sempre più cupo. La possibilità di poter rivendicare e intascare anche un centinaio di migliaia di lire gli aveva aperto l’appetito e per uno che lavorava estemporaneamente, e per pochi biglietti da mille, sarebbe stato tutto grasso colante.

Continuammo a esternare teorie sulla reazione del lino della camicia quando entra in contatto con i pigmenti del colore- specie i colori scuri – e l’olio di lino, esagerando fino a fargli immaginare che nel punto del contatto si sarebbe formato nel giro di qualche giorno un buco difficilmente riparabile. Insomma, un danno al cui cospetto l’esondazione del Vajont era poca cosa.

Era passata una mezzoretta da quando era avvenuto il fattaccio e notammo che Giametti, con passo caracollante alla cui incertezza aveva contribuito certamente qualche altro “bicchierino” di brandy, stava per fare il percorso inverso.

Giunto davanti a noi:

- La mi scusate, signori! Devo rientrare- disse con garbo e biascicando le parole. 

- Eh no, amico mio! La vuoi passare liscia – esclamò Alfredo inalberato, mentre si alzava e si portava davanti a lui- Ora mi paghi il danno!

- Quale danno? - chiese Giametti meravigliato. 

Il giovane accomodante, che una mezzora prima aveva minimizzato e accettato le scuse per la macchia sulla camicia, adesso si mostrava con un piglio battagliero, deciso a rivendicare il risarcimento di un danno causato dalla pittura del quadro.  

- Ma quale danno! Con un semplice lavaggio la macchia la va via! Porti pure la camicia in lavanderia e le rimborserò i soldi che avrà speso! - ribatté Giametti e, alzando il tono della voce, intimò - E adesso la mi faccia entrare! 

- Amico mio, voglio l’assicurazione! - urlò Alfredo, mentre cercava i nostri sguardi. 

Noi eravamo rimasti impassibili, come se la cosa non ci riguardasse. Entrambi i contendenti durante la disputa cercarono i nostri cenni di assenso. Giametti sperava in un intervento che facesse intendere all’amico nostro di essersi bevuto il cervello e che in effetti il danno non c’era; Alfredo, a sua volta, ci voleva coinvolgere a supporto delle tesi che poco prima avevamo sostenuto a suo favore.

Dolfo fece il primo passo: 

– Sì, vabbè il danno c’è, però cercate di trovare un accordo! – 

Alfredo lo guardò sorpreso e replicò:

-Ma che accordo e accordo! La mia camicia fra un giorno qua avrà un buco – e indicò il punto incriminato – Chi mi rimborserà il costo della camicia? Voglio l’assicurazione! 

Giametti sbarrò gli occhi e urlò:

-Tu se’ tutto grullo, o tu lo fa’ apposta! Sorti di fra' i hoglioni! Sa che c'è? He ora che ne ne entro e te vado in 'ulo a te e la tu' hamicia!

Fece uno scatto ed entrò nell'androne sbattendo il portone e urlando una serie di insulti da fare impallidire anche uno scaricatore di porto.

- Alfredo, lascialo perdere! Certa gente non è giusta di testa. Non hai visto che era ubriaco? Gli effetti dell'alcol sono tremendi- chiosò Dolfo.

Alfredo annuì e si convinse che non era il caso di continuare; pensò che in fondo quello era un povero ubriaco, vittima dell'alcool e con cui sarebbe stato difficile imbastire un discorso in maniera logica e razionale.

E di razionale quella sera in piazza c'era molto, tranne ciò che era accaduto sullo scalone di un antico e nobile palazzo che aveva visto nascere e crescere la città di Oppido, ma che certamente non aveva mai ospitato una scena simile: un litigio tra una persona ubriaca di parole e un'altra che viaggiava sull'allegro andante per via di un altro bicchiere di brandy.

Capita. 












giovedì 28 novembre 2019

Gallicianò



E' un piccolo azzardo, ho voluto dare una mia interpretazione a una poesia scritta e musicata dal poeta Ciccio Epifanio; la reputo un inno alla calabresità, alle radici magno greche della nostra terra. 
Un grazie a Ciccio per questi lampi di cultura, un grazie per la costante ricerca che conduce e per quanto ancora vorrà fare. 
Ad Maiora!


Gallicianò

S’apria la vaji avanti di lu mari
e l’acqua si calava hjumi hjumi
giustu la barca mia pe navigari, 
jizai la vila e mi jettai a li schiumi.

La vallata si apre agli occhi del poeta, è il letto della fiumara Amendolea  ai piedi di Gallicianò, è una giornata di pioggia e poeta immagina di farsi largo tra le acque navigando con la sua barca.  
La barca è la metafora usata dal poeta per dire della sua volontà di navigare e conoscere, e ne issa le vele alimentate dal vento (bramosia) dello scoprire e si tuffa tra le schiume della storia.
Ora la terra cca sapi parrari
di comu quantu e tutti li premuri
mi dissi 'nda nu sulu ragiunari,
l’opiri, li poeti e i sonaturi.

Giunge sul posto con l’aspettativa che la terra che sta per scoprire gli sappia raccontare (ragiunari) di lei stessa e che con premura gli dia lumi sulle opere dei poeti e artisti del mondo grecanico.
All’artu non si va sulu a volari
si cercunu penzeri e posaturi,
all’artu si posau Gallicianò
casi di petra burgu di pasturi.

Gallicianò si trova in una sommità di montagna; e il paese non è nato lì per caso (pensa l’autore) e sostiene che in alto non si va solo per volare fisicamente, ma immagina l’elevazione dello spirito per avvicinarsi sempre più al pensiero dei grandi filosofi.
A chist’artizza si dill’atru latu,
fora di testa e supa 'nta lu celu;
sutta li pedi 'ndai nu nivulatu
e 'ntornu ti cumbogghji cu nu velu.

Alla stessa altezza si è nell’altra dimensione, quella spirituale, e immagina un’estasi mentale che lo pone sopra le nuvole oltre il visibile ammantato di un velo di immaterialità.
Non sai poviru tia ch’è natru statu,
non si cchjù tu ma la to primavera
di nuju senzu ormai tu si patruni 
e a genti ti saluta “calimera”.

Non sai di trovarti in un’altra condizione, non sei più tu, stai vivendo una rinascita, (primavera) non sei più padrone dei sensi terreni e si parla un’altra lingua 
Simu a la Grecia antica di Platuni
e jeu cu l’unghji scavu chista terra,
pecchì pozzu trovari li ragiuni
e a chistu pettu meu spicciau la guerra.

“Approda” a Gallicianò, terra della Grecia Antica di Platone e con le unghie scava quella terra (ricerca, studia) per andare a scoprire sempre più le sue radici e solo facendo così può trovare le risposte, scavando nella storia, per trovare (scoppiau) la pace dell’anima (a chistu pettu)  .
E vinnimu a principiu di stagiuni
quandu a ricina voli fatta vinu
ddu vecchji poetati Calabrisi
comi li magi jiru a lu Bombinu.

Sono arrivati in due a Gallicianò nel periodo di vendemmia: Ciccio Epifanio e Totò Frisina, due vecchi poeti calabresi, l’autore usa la metafora dei Re Magi che andarono in adorazione da Gesù Bambino.
Cu veni mu si leji a lu passatu
trova la carni e li sustanzi puri,
li senzi, lu sangu e lu righjatu,
li signi lu linguaggiu e li figuri.
Chi si reca in quei luoghi per scoprire (leji) il passato trova certamente il vero senso dell’umano e l’esistenza pura (sustanza), trova il senso, la linfa e il respiro attraverso i segni, le immagini e la parola.
Di chista lingua mia cu tanti pisi
cercu radici vecchji e fundi assai,
paroli comu fa “scatasciarrisi”,
crastu, capuni, babbu e rrizzai.
Cerca le radici di della sua lingua per lui molto importante (pisi) visto che adora poetare in dialetto e ne trova riscontro in parecchi termini della lingua calabra.
Fummu a la porta fermi a scaliari,
comu chju chi vidi la chimera
e vinni i botta cu 'na vesta janca
nu Grecu Calabrisi d’i Nucera.
I due poeti si fermano davanti a una porta e sbirciano (scaliari) dentro con la meraviglia di colui che vede una chimera, quando all’improvviso è comparso un Greco-Calabrese (Mimmo Nocera, animatore e cicerone di quella piccola comunità grecanica)
E comu lu maestru non si stanca
di fari a li scolari la leziuni
girau cu nui li chjesi e lu triatu
e seppi mu ndi juma la passiuni.
Mimmo Nocera si è posto come un maestro per spiegare agli ospiti ogni angolo di quella comunità, dalla chiesa ortodossa al piccolo teatro greco, presenti a Gallicianò, e con i suoi racconti e con le sue spiegazioni ha alimentato la passione dei due amici.
Finiu la festa e u tempu fu fermatu
quandu lu cori ndi voliva ancora
“State Kalà” la Greca ha salutatu
E pe cu si ndi va” Stinga linora”
Finita l’escursione è finita la festa quando nei due poeti c’era ancora sete di sapere; e vivono la sensazione di sospensione della realtà come se il tempo si fosse fermato al tempo dei filosofi greci. E quando stanno per abbandonare quella condizione di estasi e altra dimensione dello spirito una signora anziana greca ha augurato a loro un buon rientro in lingua greca : andate in pace.

mercoledì 6 novembre 2019

Amarcord






I pomeriggi, di quell’autunno avanzato, tornavano noiosi; le sensazioni di entusiasmo si spendevano al mattino tra scuola e uscita. Poi la sosta al bar e le ultime note di una canzone da ascoltare fino alla partenza dell’ultimo pullman che portava via gli studenti di fuori paese.
“Ricominciare non è possibile ormai fra poco tu te ne andrai…” cantavano i Romans e c’era chi si ostinava a gettonare “Domani è un altro giorno”; la voce nasale di Ornella Vanoni, speranzosa nel testo, ma triste nella melodia, avvolgeva i pensieri di chi legava la sua inquietudine al colpo di clacson che avvisava la partenza del pullman.
Già, domani sarebbe stato un altro giorno, con i ritmi di sempre; tempi scanditi dalla campanella. E Ciccillo era preciso, non sgarrava di un minuto, la faceva vibrare seguendo il canovaccio di una scuola a volte ligia solo negli orari. Per tanti quel suono giungeva molto presto al mattino e troppo tardi all’ultima ora. Sembrava si vivesse per i ritagli di tempo che concedeva la campanella, e sui ritardi dei professori. Attimi rubati alle ore di lezione e vissuti con la voglia di ridurre le distanze con la ragazza che si era impadronita dei pensieri. Approcci banali e timidi, con la presunzione di fare apparire tutto come per caso. E così tutti i giorni.

All’altezza della Posta Ciccio si accese una sigaretta, giunse al bar ancora semideserto, si sedette in una delle due sedie accanto al juke box e continuò a fumare al riparo dal freddo e dagli occhi dei suoi. Dalla tasca dell’eskimo, abbottonato fino al collo, sbucavano fuori dei fogli arrotolati; il suo sguardo smarrito, e attento solo agli anelli di fumo che salivano dalla sua sigaretta, non camuffava il turbinio dei suoi pensieri. Davanti a lui, attaccata al banco della cassa del bar, una locandina, stilizzata a caricatura, mostrava la sagoma di una donna, dalle spalle fino al fondo schiena come se fosse un contrabasso, tra le braccia e lo sguardo godurioso di un uomo con il naso che spuntava più lungo dell’archetto.
“Domenica al Cinema Italia primo spettacolo ore 3,00” e ancora” Vietato ai minori di 14 anni”
Una didascalia a pennarello, usato da una mano incerta, annunciava luogo e orario dello spettacolo:
-IL MERLO MASCHIO- con Lando Buzzanca e Laura Antonelli.
 Non abbisognava precisare che “ore 3” era riferito al pomeriggio; i prevedibili spettatori, anche inferiore ai quattordici anni, sapevano già tutto e avrebbero atteso l’attimo in cui l’alto parlante puntato sulla piazza avrebbe diffuso le prime gracchiate del film che stava per iniziare.

Per Oppido era una prima visione, uno di quei film da proiettare solo di domenica; film di grido e di cassetta, anche se arrivava dopo tre anni dalla prima. 
Il vicolo che costeggiava il bar, dalla parte laterale opposta al corso, portava all’ingresso del Cinema Italia; all’angolo, sul muro del bar, Vicenzo aveva piazzato un altoparlante e sotto una bacheca in legno, con uno sportello che incorniciava una rete metallica, dove provvedeva ad attaccare i cartelloni dei film in programma. Solo di mercoledì, o quando trovava qualche pellicola particolare, si limitava a fissare un pezzo di carta con su scritto “mercoledì Film”, poi bastava il passaparola.
Messaggio criptico, ma nello stesso tempo chiaro, diretto ai giovanotti smaniosi di scoprire le immagini e le trame, quasi sempre scontate, di film in cui la facevano da padrone “caldose” fantasie e gole profonde. Erano linfa viva per le immaginazioni degli avventori ancora in erba e spesso rendevano molto agitate le visioni. Nuova frontiera di inconfessabili scoperte, in un paese dove tutto si mostrava compassato e senza sussulti; mondi nuovi che accendevano e alimentavano i pruriti giovanili, e Vicenzo conosceva bene le voglie dei giovani spettatori.

*

Peppe non tardò ad arrivare, si sedette accanto a Ciccio, e mentre la canzone “Un’altra volta chiudi la porta” consegnava l’ultimo ritornello alle orecchie disattente dei presenti, Peppe tirò fuori un foglio e si rivolse a Ciccio.
- Il giornale dovrà essere strutturato in questa maniera: una pagina la dovremmo dedicare al Liceo, notizie e curiosità sull’Istituto; dovremo ascoltare un po’ gli umori degli studenti e riportare sommariamente le considerazioni più interessanti. 
La seconda pagina la dedicherei alla politica locale; la terza pagina ai moti di Reggio di qualche anno fa, rimarcando l’impegno della sinistra contro la speculazione politica montata ad arte dalla destra dei “boia chi molla”. Poi vorrei che venisse dedicata una pagina al colpo di stato in Cile e chiuderei le ultime due pagine con delle lettere di partigiani condannati a morte, qualche poesia di Calamandrei e qualche pagina tratta dai “Quaderni dal carcere” di Gramsci - finì. 
Nino e Mario giunti da poco al bar si erano uniti alla combriccola, ascoltarono le parole di Peppe, e mentre lui esponeva il suo progetto si sentirono smarriti; erano tutti argomenti di cui sapevano poco o nulla. Avevano sentito parlare di “boia chi molla” e del colpo di stato di Pinochet avevano udito qualcosa alla radio o in televisione. Di Calamandrei e di Gramsci buio pesto. Temi improponibili per chi si svegliava al mattino solo col pensiero alle tre MS sfuse e alla compagna di liceo che aveva smosso e acceso nuovi fremiti e sussulti. 

venerdì 18 ottobre 2019

Mastru Peppinu



Mastru Peppinu

( quandu moriu so mamma)



ATTO UNICO

Interno:
casa con in un lato un tavolo adibito a banco da lavoro, una porta al centro, una laterale e una finestra. Sulla parete un quadro di San Rocco col cane.
Si apre la scena con Mastro Peppino poggiato con il gomito sul tavolo da lavoro e guarda con tono di sfida l’immagine di San Rocco, la signora Cuncetta, mentre attraversa la stanza, nota l’atteggiamento di Mastro Peppino.

Cuncetta       -Peppi non zanniari chi santi!... Cacchi jornu ti castiganu…
  (tra sé rivolta al pubblico) …voli l’affittu i santu Roccu e du cani…oh      
   signuri meu! (rivolto a M.P.) ma d’undi ti veninu!

M.Peppino -  Non dicu u paganu l'affittu, ( pausa)
                      ma almenu u cani u bbaja se trasi carcunu!

Ritorna al banco e continua a nchimari.  Bussano alla porta.

M.Peppino     - Avanti!

Ciccantoni     Eh salutamu! Mastru Peppinu, chi si dici? 
                      ( entra, si siede su  una delle sedie)

M.Peppinu     - Bongiornu…facendiamu…

Ciccantoni    - Giustu…giustu….nda stu paisi i vagabondi e di farfalloni,
    nui simu comu i muschi janchi!

Mastro Peppino alza lo sguardo stranito e sorpreso poiché Ciccantoni non ha mai lavorato in vita sua.

Ciccantoni     - e poi…chi comuni la merda!!!…si vindiru puru i cipressi
du campusantu!!! Al nord nun succedunu sti cosi, là si che 
è un’altra vita…mah…chi sind’avi a fari. È cosi……eh…
mastru Peppinu vui non jistivu mai al nord?

M.P.            - no…Ciccantoni…ndaiju sulu una zia a Ventimiglia…e u
 sordatu u fici a Pizzolu, vui non jistivu mai a Pizzolu?

 (sapendo dell’ignoranza di Ciccantoni, lo burla inventandosi un luogo inesistente)


( il seguito quando si metterà in scena)