domenica 21 gennaio 2018

Rocco De Zerbi, una storia di altri tempi?



Il politico oppidese morì il 20 febbraio del 1893 in circostanze drammatiche a seguito dello scandalo della Banca Romana; la tesi più accreditata, e forse quella vera, è che cessò di vivere a causa di complicanze cardiache. (cit. Rocco Liberti - Quaderni Mamertini).
Altra ipotesi, la meno accreditata, è che si tolse la vita a seguito di quello scandalo che segnò la vita politica dell’Italia di fine ‘800.

Il 29 agosto del 1929, su La Stampa, il giornalista Luigi Lodi ha tracciato un profilo, con occhio contemporaneo, del giornalista-politico-letterato, Rocco De Zerbi.
All’epoca dei fatti, Lodi, era il direttore del settimanale “La Nuova Rassegna”, ma nell’ottobre del 1983 dava alle stampe il primo numero del quotidiano “Il Don Chisciotte di Roma”.

Mi limito a trascrivere fedelmente tutto l’articolo, la lettura della copia originale sarebbe complicata.

LA TRAGEDIA DI ROCCO DE ZERBI
(-Ricordi Personali-La Stampa, 29 agosto 1929)

 Si è stampato, in questi giorni, che Pietro Mascagni ha ripreso a comporre “La Vestilia” (romanzo di De Zerbi ndr), per terminarla. Ha ripreso perché - non riesce inutile chiarirlo - a musicarla si accinse più di trent’anni orsono, fresco ancora del trionfo della “Cavalleria Rusticana”. E spesso - specie nel tempo passato - agli amici faceva sentire le pagine che diceva già composte.  Alcuni degli ascoltatori ebbero il sospetto - non rilevato- che egli, a tratti, in quelle esecuzioni improvvisasse. Comunque, a tornarvi sopra sembrava non pensasse più; si era già di tanto dal mondo greco-romano. Adesso assicura che vuol condurre a termine  lo spartito, ti auguriamo sia così; il pubblico che non ha mai frequentato con tanto fervore I teatri lirici, aspetta chiede novità. Intanto, poiché molte cose sono dimenticate, non sarà inopportuno aggiungere che l’argomento della Vestilia  è offerto da un romanzo di Rocco de Zerbi, il quale per molti rispetti fu una persona molto significativa.

Il direttore del  “Piccolo”

Calabrese di nascita, aveva appartenuto all’Esercito e poi si era  stabilito a Napoli, per farvi giornalista. Forse avrebbe preferito esercitare esclusivamente la professione di scrittore; possedeva varia, se non solida, cultura E ambiva segnatamente la fama di letterato. Si era formato  uno stile colorito e incisivo se non rigorosamente corretto; aveva qualità di oratore che ne fecero un conferenziere applaudito; maneggiava abbondantemente la immagine e sapeva anche valersi di citazioni calzanti, più o meno autentiche.
Ma se divenne deputato, conquistando a Napoli una clientela fida,  se esercitò a volte  un’azione positiva negli avvenimenti cittadini, fu perché  direttore del “Piccolo”, il giornale suo.
C’erano, allora, nella capitale del Mezzogiorno, altri giornali, che avevano lettori convinti e scrittori ben quotati: il Corriere del Mattino diretto da Martino Cafiero, temperamento sincero di artista; il Pungolo al quale il Comin  conferiva autorità politica; il Roma, cui procurava larga diffusione la riconosciuta indipendenza del suo proprietario. Ma il Piccolo era e rimase, finché almeno non comparve il Corriere, redatto da Edoardo Scarfoglio e da Matilde Serao, il monitore della classe eletta e, sino a un certo segno, dirigente. Gli avvenne pure, per brevi periodi, di avere collaboratori di primissimo valore, quali appunto, la Serao e Vincenzo Morello, e all’ultimo si arricchì di un corrispondente da Roma davvero eccezionale e che divenne poi ripetutamente Ministro, Vincenzo Riccio. Ma il Piccolo, che restava un foglio di vecchio stampo, a scarsa tiratura (poche migliaia di copie) derivava la sua forza dall’articolo di Rocco De Zerbi.
Era questo articolo che si cercava ed ammirava incondizionatamente. Poteva pure giovarsi di altri attributi per accrescere la sua fama; sapeva trovare la frase e trovare il gesto.

La polemica con Carducci

Delle sue conferenze, infatti, celermente dimenticate, una frase si ricordò lungamente, quella del “ bagno di  sangue” indispensabile per conseguire il reale rinnovamento della Nazione.
Dei suoi gesti ne citerò uno. All’indomani dalla prima rappresentazione del “Lohengrin” al San Carlo, si aspettava di leggere quello che il Piccolo ne avrebbe stampato. Ma il Piccolo uscì con tre righe sol, press’a poco queste:
 - Wagner non è Rossini;
- Wagner non è Bellini;
- Wagner è Dio.
- Domani parleremo del “Lohengrin”.
E gli ammiratori,  a leggere queste righe, esclamavano:- Egli è grande. Conosceva il suo pubblico e se lo coltivava. Aveva pure un’altra dote per cattivarselo: era animoso. Basta rammentare il coraggio da lui dimostrato mettendosi in polemica con Giosuè Carducci intorno a Tibullo e alla lirica Latina. Dicono ci fosse chi gli forniva i materiali eruditi, ma non fa nulla; egli assumeva la responsabilità di quanto mandava al “Fanfulla della Domenica” e avrebbe proseguito nel contrasto, se Ferdinando Martini non fosse uscito  con l’imperativo:- Passiamo a  Properzio.
Anche allora fra i fedeli napoletani non mancarono parecchi i quali, per conto loro,  conclusero:-ne ha dette quattro al poeta di Satana.
Ma egli, forse perché ne aveva goduto tanto largamente, era ormai sazio di quei successi. Mirava più in alto. Mostravasi  in possesso di una sicura agiatezza; nelle conversazioni accennava volentieri ai beni suoi, che avrebbe avuto nel modenese e anche nella Romagna. Aveva preso casa a Roma portandovi pure la famiglia; era diventato passivo di Montecitorio; ricordava frequentemente il suo passato mi uomo di destra. Si era accontentato di essere Deputato, deputato invariabilmente ministeriale: intendeva di salire. Quando il Gabinetto di Rudinì si decompose e non riuscì a ricomporsi, nella primavera del 1892, lo trovai in Piazza Colonna in colloquio con Achille Fazzari: patrocinava la propria candidatura a Ministro della Marina. Pochi giorni dopo era venuto il primo Gabinetto Giolitti, ed egli volle, dai banchi di Destra appunto, pronunciare un discorso di opposizione, discorso demolitore, come era stato il 4 maggio, quello del Martini. Correva, evidentemente, differenza tra i due oratorie differente, infatti, fu l’effetto: e il Gabinetto Giolitti rimase. Non si sgomentò egli per questo; proseguì a frequentare la Camera, a insistere nei colloqui per i corridoi, a cercarsi amici, segnatamente tra i giornalisti. Sentiva, si sarebbe detto, avvicinarsi l’ora sua.

La Banca Romana
Invece, a distanza di pochi mesi, nel gennaio dl 1893, precipitò la catastrofe della Banca Romana. La storia intera di questo istituto, che tuttavia il privilegio della emissione, sarebbe curiosa e, magari, salvo nella tragedia, pure divertente. Non questo, però, il luogo. Basti rammentare che dal Governo pontificio, nel 1830, fu fondata a Parigi, con capitali francesi e pure francesi erano gli amministratori a Roma. La concessione aveva, contrattualmente, la durata di ventuno anni, ma avanti che scadesse, il Governo volle crearne un’altra non di origine straniera. Si era fissato che il capitale iniziale di questa dovesse arrivare a un milione di scudi. Non ci si giunse e fu forza contentarsi di 600.000 scudi. Così incominciò nel ’50 e si tirò avanti alla meglio e anche, più spesso, alla peggio, finché arrivò lo Stato Italiano. Questo conservò l’Istituto, riconfermandogli la facoltà della emissione. A sentire certi avversari mai aveva potuto diventare veramente sano e forte, per colpa Belle privilegiate famiglie alle quali, dagli inizi, era asservito. Ma, limitato nei mezzi, Senza possibilità di espansione territoriale, la sua azione doveva essere necessariamente modesta. Si restringeva quasi esclusivamente nel soccorrere il credito laziale. E per alcuni anni non diede pretesto a rumori. Questi incominciarono ed ingrossarono più tardi quando della banca era governatore Bernardo Tanlongo. Egli originava da una sottospecie della gente romana di allora, ormai quasi interamente scomparsa, quella dei mercanti di campagna; prendeva in affitto dai prìncipi proprietari vaste tenute pagando assai poco di canone E occupandosi di agricoltura presso che soltanto sfruttando I pecorai. Si faticava poco E si guadagnava assai. Perché proprio a lui, con tali precedenti, si pensasse di affidare le sorti della Banca, non fu chiarito mai.  Certo egli poteva vantarsi di essere un esperto in materia di caccia, la sua passione vera. Di tecnica bancaria, col tempo, aveva acquisito queste due sole idee chiamiamole pure così:-la circolazione monetaria è troppo scarsa ai bisogni del paese: la “ riscontrata” è un male che va tolto di mezzo.

Due biglietti da mille

Poiché, circa l’aumento del medio circolante, nessuno gli dava retta un bel giorno penso di provvedere da sé. Circa i modi con cui provvedeva si accorse, per primo, Sidney Sonnino. Diligente osservatore di tutto, egli constatò di possedere due biglietti, da 1000 lire, della Banca Romana, che recavano lo stesso numero di serie e di ordine. Non c’era dubbio dunque: la serie era doppia. Alieno dai clamori, specie allorché potevano danneggiare il credito pubblico, egli diede privatamente notizia della constatazione compiuta al Ministro competente. Parve si volessero prendere misure gravi, o almeno si minacciarono; ma poi si finì con l’accogliere la spiegazione data da don Bernardo: si trattava un semplice errore dei fabbricatori inglesi dei biglietti, errore già riparato perché egli aveva fatto ritirare e distruggere quella serie non voluta. Rimaneva la faccenda della “riscontrata” E anche se per essa applicava un espediente l’iniziativa propria. Poiché riscontro con i biglietti della Banca Nazionale giacenti negli altri istituti di emissione non compivasi nel medesimo giorno, egli si era accordato con commendator Cuciniello, direttore della sede romana del Banco di Napoli. Figura non trascurabile pure questa del Cuciniello.  A vederlo, a sentirlo, aveva il più rigido degli amministratori. Finì, però, con un processo per sottrazione di fondi e quando gli agenti, che dovevano arrestarlo, giunsero, dopo lunghe ricerche a scoprirlo, era vestito da prete nella casa di una sarta, sua buona, troppo buona amica. E questi non sono che due episodi per quanto caratteristici. Ma sulle condizioni, disastrose, la banca, si parlava da tempo. Ministro del Tesoro, nel gabinetto Crispi, l’Onorevole Giolitti ordinò un’inchiesta, che fu precisamente l’inchiesta Alvisi, rivelatrice di in qualificabili disordini. In seguito, però, si penso di non pubblicarla per evitare uno scandalo, che avrebbe avuto ripercussioni durissime sull’economia nazionale.
Il signor Bernardo Tanlongo si mantenne, pertanto, tranquillo nel suo ufficio, Dove passava molte ore del giorno, così che da casa si faceva portare la colazione, colazione frugalissima. Vi riceveva anche molte persone, quasi sempre di mediocre o infima categoria: sedicenti amici di uomini politici quali, non autorizzati, spendevano la protezione; sedicenti pubblicisti, che abusavano del nome di quelli veri. Con tali ausili egli si sentiva sicuro: anzi, da lì a poco apparve trionfatore, perché, nell’autunno del 1892, ebbe posto al Senato. Senatore lui, mentre il Grillo, direttore generale della Banca Nazionale, non lo era!
Ma anche quel suo Campidoglio era vicina la rupe.
Il senatore Alvisi, seccato che la sua relazione rimanesse sempre inedita, la passò all’on. Wollemborg e questi a Prinetti e il Prinetti al Colajanni.
Si crecò di evitare ancora il troppo clamore: non potendo più tenere in piedi la Banca Romana, si tentò di fonderla con la Nazionale. Le negoziazioni corsero e parvero giunte alla conclusione imposta. Ma nella sera proprio in cui il Consiglio di Amministrazione della Nazionale era riunito per fissare definitivamente i patti e i modi della fusione, arrivò, inatteso, Costanzo Chattevet, che delle trattative prime aveva avuto l’incarico. Era evidentemente molto eccitato e disse soltanto: - Non se ne può fare nulla, hanno rubato nove milioni!
C’erano i milioni fino a due giorni avanti, ma non si trovavano più. Lo scandalo, il processo erano, dopo ciò inevitabili. Vero che tutti gli imputati, compreso un funzionario confessò di essersi appropriato di alcune decine di migliaia di lire, tutti più tardi furono egualmente assolti.

Arresti e denunzie

Poche settimane dopo lo scatenamento dell’uragano, io accompagnavo alla Posta della Camera l’on. Silvestri, ansioso di aver notizie del come la sua signora avesse passato la notte. L’ufficio postale, modestissimo, era allora all’ingresso del palazzo, pressoché, quindi all’esterno. Anche di lì, però, si poteva avvertire come all’interno ci fosse una intensa e eccezionale agitazione.
Da parecchio tempo, del resto, tutta la città era agitata, convulsa. Avevano arrestato il commendatore Bernardo Tanlongo, arrestato il commendatore Cesare Lazzaroni, rispettivamente governatore il cassiere della banca. E non bastava: si annunziavano, o si credeva di poter preannunziare, le catture di alti funzionari del Ministero di Agricoltura. Il guardasigilli, onorevole Bonacci, uomo rigidissimo, realmente rettilineo, in Consiglio dei Ministri si assicurava che, alle prime rivelazioni avesse esclamato: -cada il mondo, Ma giustizia sia fatta.
E fin dove sarebbe arrivata la giustizia? Fuori c’erano quelli che pensavano all’interesse privato eppure a quello collettivo: gli azionisti della banca che intuivano perduto il loro capitale; commercianti, agricoltori, che vedevano crollato l’istituto da cui attingevano credito. A Montecitorio, soprattutto si confondevano gli odi, le speranze, i timori di origini; ritenevasi certo che molti, tra i maggiori, sarebbero stati compromessi, letteralmente abbattuti. E si facevano i nomi, si godeva la gioia di inevitabili precipizi eminenti. Quante orribile calunnia onestamente diffuse in quei giorni! La commissione dei Sette, affidata a galantuomini, uscì poco dopo da quelle aspettazioni di scandali, da quei desideri di vendetta.
Eravamo, dunque, l’amico Silvestri ed io, indifferenti al tumulto crescente intorno, davanti allo sportello dell’ufficio postale, quando comparve Rocco de Zerbi.
Incominciò, senz’altro, col darci la notizia che tutti conoscevano dal giorno avanti:-fra pochi minuti, disse ad alta voce,si leggerà nell’aula la domanda di autorizzazione a procedere contro di me. Io, proprio io solo, dovrei essere il rapinatore della Banca Romana!
E continuava a vociferare, a tratti quasi gridando; non era manifestamente padrone di sé. Ripeteva convulsamente di voler intervenire nella discussione; di rivelare colpe, complicità non perseguite; se la pigliava con il ministero attribuendogli di volersi vendicare dell’opposizione fattagli; malediceva colleghi, che avrebbero dimenticato benefici da lui generosamente resi loro. Procurare di fargli comprendere che a Montecitorio non doveva restare; che aveva bisogno di riposo e di silenzio. Fortunatamente finì col lasciarsi trascinare fuori, e salire in una carrozza per essere condotto a casa.
Non ne uscì, credo, Che una volta sola nei giorni seguenti, per andare dal giudice istruttore. E può dirsi fosse questo l’atto estremo della sua esistenza. Dopo quarantott’ore da quel primo interrogatorio, era defunto: si era ucciso.

Se era colpevole si è giustiziato

Aveva lasciato un grosso plico indirizzato a un amico in cui, si assicurava avesse sposta la sua difesa. Ma ora che era scomparso l’uomo non parve opportuno rendere pubblico l’ultimo suo scritto. Tutto di lui e per lui era ben finito. Ai suoi funerali assistettero tre soli deputati, uno dei quali, Il marchese Di Rudinì, che disse: - Se era colpevole si è giustiziato.
Ma la tragedia di lui non chiuse il dramma intorno alla Banca, anzi, a certe ore parve acuirsi en invelenire. Una crisi di Gabinetto sembrò poca cosa in confronto delle attese accumulato. Ma poi, a distanza di alcuni, pochissimi mesi, non se ne parlò più; o appena a soddisfazione di curiosità aneddotiche.
Un anno dopo lo scandalo enorme, che si era annunziato purificatore, io chiesi al commendatore Grillo, direttore generale della Banca Nazionale: -ebbene, dopo l’inchiesta dei sette e le condanne da essa pronunciate, hanno mutato i costumi parlamentari?
- Mutamento, egli rispose, c’è stato; prima scrivevano adesso, quando vogliono qualche cosa, telefonano.
Forse aveva ragione lui, Rocco De Zerbi; ci voleva, per un’Italia nuova, un bagno di sangue.

(Luigi Lodi)

mercoledì 10 gennaio 2018

Bandiera Bianca





I misfatti politici e la cronaca spicciola colmano la quotidianità e si presentano come mortificazioni dello spirito specie per coloro che hanno sempre considerato il senso civico il punto fermo del loro essere.
Se avessimo la forza di schivare le sordide provocazioni che giungono dai social (ormai peggio dei Bar dello Sport) faremmo cosa utile a noi stessi e renderemmo meno avvilente ogni riflessione.
Dovremmo arrenderci e sventolare Bandiera Bianca? Farci sorpassare e rimanere ai margini del becerume forse sarebbe salutare e anche d’esempio.

Anche il maestro Battiato in un certo periodo storico inneggiò alla Bandiera Bianca:

Mister Tamburino non ho voglia
di scherzare rimettiamoci la maglia
i tempi stanno per cambiare

Si rivolge a Bob Dylan (Mister Tamburin man), e alla generazione che rappresentava, invitandolo a rimettere la maglia “della salute” e occorre coprirsi bene poiché i tempi stanno per cambiare (The Times They Are A Changing) altro successo di Dylan. Lo prega di guardarsi intorno e non rimanere abbarbicato ai suoi vecchi convincimenti.

Siamo figli delle stelle,
pronipoti di sua maestà il denaro

Non risparmia Alan Sorrenti che all’inizio della sua carriera si era mosso sulle note del rock Progressive, (genere di musica gradito a Battiato) ma poi ha optato per “sua maestà il denaro” con una canzone di successo come Figli delle stelle.

Per fortuna il mio razzismo
non mi fa guardare quei programmi
con tribune elettorali

Semplice voglia (che rasenta il razzismo) di cambiare canale, anche adesso, in presenza di debordanti talk politici dove si tende a spararla più grossa solo con lo scopo di fare colpo nel mare magnum degli spettatori, spesso boccaloni.

Avete voglia di mettervi profumi
e deodoranti siete come sabbie mobili
tirate giù

Nel mirino la pubblicità che spinge nell’esaltazione dell’apparire e a celare la vera essenza di ogni individuo dando una percezione diversa da ciò che si è; e lo reputa un meccanismo che ingoia un po’ tutti, come le sabbie mobili.

C’è chi si mette degli occhiali da sole
per avere più carisma e sintomatico
mistero

In questo verso credo che faccia un autoriferimento, visto che lui portava gli occhiali da sole anche di sera, quasi a volersi rendere voce anonima per dare esaltazione solo alle cose che dice e non ai suoi tratti somatici.

Com’è difficile restare padri
quando i figli crescono e le
mamme imbiancano
“Le mamme imbiancano” è una citazione della canzone “Son tutte belle le mamme del mondo”; in questo passaggio vuole sfatare il mito di quella visione del mondo e pone in modo crudo il desiderio dei padri che vorrebbero vedere le mogli sempre nella pienezza della gioventù e della bellezza.

Quante squallide figure che
attraversano il paese com’è
misera la vita negli abusi potere

Scenario attualissimo, lo è adesso lo era allora. Riferimento a coloro che si ergono a classe dirigente (politici e non) e abusano del loro potere rendendo misera la vita di molti.

Sul ponte sventola Bandiera Bianca

Chi non ha mai imparato a memoria la poesia di Fusinato, Addio a Venezia, propinata come inno del Risorgimento? Le corde stridono/ la voce manca/ sul ponte sventola/ Bandiera Bianca.