venerdì 18 ottobre 2019

Mastru Peppinu



Mastru Peppinu

( quandu moriu so mamma)



ATTO UNICO

Interno:
casa con in un lato un tavolo adibito a banco da lavoro, una porta al centro, una laterale e una finestra. Sulla parete un quadro di San Rocco col cane.
Si apre la scena con Mastro Peppino poggiato con il gomito sul tavolo da lavoro e guarda con tono di sfida l’immagine di San Rocco, la signora Cuncetta, mentre attraversa la stanza, nota l’atteggiamento di Mastro Peppino.

Cuncetta       -Peppi non zanniari chi santi!... Cacchi jornu ti castiganu…
  (tra sé rivolta al pubblico) …voli l’affittu i santu Roccu e du cani…oh      
   signuri meu! (rivolto a M.P.) ma d’undi ti veninu!

M.Peppino -  Non dicu u paganu l'affittu, ( pausa)
                      ma almenu u cani u bbaja se trasi carcunu!

Ritorna al banco e continua a nchimari.  Bussano alla porta.

M.Peppino     - Avanti!

Ciccantoni     Eh salutamu! Mastru Peppinu, chi si dici? 
                      ( entra, si siede su  una delle sedie)

M.Peppinu     - Bongiornu…facendiamu…

Ciccantoni    - Giustu…giustu….nda stu paisi i vagabondi e di farfalloni,
    nui simu comu i muschi janchi!

Mastro Peppino alza lo sguardo stranito e sorpreso poiché Ciccantoni non ha mai lavorato in vita sua.

Ciccantoni     - e poi…chi comuni la merda!!!…si vindiru puru i cipressi
du campusantu!!! Al nord nun succedunu sti cosi, là si che 
è un’altra vita…mah…chi sind’avi a fari. È cosi……eh…
mastru Peppinu vui non jistivu mai al nord?

M.P.            - no…Ciccantoni…ndaiju sulu una zia a Ventimiglia…e u
 sordatu u fici a Pizzolu, vui non jistivu mai a Pizzolu?

 (sapendo dell’ignoranza di Ciccantoni, lo burla inventandosi un luogo inesistente)


( il seguito quando si metterà in scena)

martedì 1 ottobre 2019

Du ..Carminu..

(Immagine concessami gentilmente dall'amico Vincenzo Vaticano)






Quella sera mio padre pensò di portarmi alla festa della Madonna del Carmine; ero attratto dalle feste, dalle fere, e lo sapeva.
Lui avrebbe fatto a meno di quella camminata, dopo una dura giornata di zappa, ma pensò di propormelo come se fosse una ricompensa.
Partimmo dalla foresta col sole che se ne stava calando, conosceva le ‘ccurciature tantoché in un’ora fummo a Varapodi.
La processione stava per finire, la vara con la Madonna era sul punto di fare rientro in chiesa; facemmo un giro tra i ferari, tra mustazzoli nucilla e ciciri.
Il caldo torrido di quel giorno di luglio si era aggrappato ai muri e dava l’impressione che volesse essere anch’esso della festa.
Là in piazza, in una panchina dietro al palco, proprio vicino alla scaletta che portava su, vedemmo nostro zio Nino, fratello di mio nonno; ci avvicinammo e mi sedetti accanto a lui. Rimasi lì, in attesa dei cantanti.
Un’aria surreale avvolgeva Varapodi, tanti devoti della Madonna del Carmine, tanta gente e un vocìo costante faceva da sottofondo alle prove dei musicisti.
Poi una calca di persone verso di noi, ragazzi che accorrevano e le guardie comunali che schiudevano un corridoio per i protagonisti della serata. Loro, i cantanti, erano a un passo da me e vestiti di bianco, e man mano che salivano andavano a prendere posto: batteria, tastiera e chitarre.
Gli applausi di attesa si alzarono, le grida di tripudio fecero intendere che l’attesa era stata tanta; l’ultimo di loro, il cantante, prima di salire sostò un attimo accanto a me. Capelli corvini alla moda, una barba giovane e nera gli contornava la mandibola, mi guardò dall’alto verso il basso, attraverso gli occhiali spessi come culacchi di bottiglia, mi sorrise e mi chiese:
- Non ti diverti?
Annuì e risposi al sorriso, vergognoso con la timidezza di un decenne. Forse il caldo e l’aria stanca avevano reso serio il mio volto e gli avevano dato l’impressione di una mia indifferenza.
La serata scorse via festante, io la vissi con l’animo di chi aveva avuto il privilegio di parlare col cantante. Lui cantò, e quando intonò “Come potete giudicar” la piazza sembrò non contenere le grida di gioia e i battimani.
Poi la festa finì, le note si fermarono; la botta scura che anticipava i fuochi aveva scosso anche i paesi vicini, e le successive rosate degli spari ci colsero che eravamo già sulla stradache costeggiava il campo sportivo, di ritorno verso la foresta. Una notte di lavoro ci attendeva, il nostro turno iniziava alle due. Tre ore ancora per bivarere e poi a dormire nel pagliariccio.
Seguii attento, dall’altra parte della rasula, le votate di mastra di mio padre; e quando qualche nuvolata copriva la poca luna mi abbassavo per controllare con le mani se l’acqua avesse inzuppato a modo la terra e tutte le rangare.
Il sonno addentava le palpebre, la stanchezza mi faceva desiderare oltre misura la lettiera, ma mi sentivo appagato; infondo se quella sera non fossi stato lì mi sarei perso il garbo, il sorriso e la voce di Augusto Daolio.