venerdì 4 novembre 2022

Il commissario Camilleri e Salvo Montalbano



Il commissario Montalbano è nato dalla penna e dalla storia personale di Andrea Camilleri. 

A suggerire la figura del personaggio interpretato da Zingaretti sarà stato certamente lo zio dello scrittore siciliano Carmelo Camilleri, negli anni ’30 vicecommissario di Polizia a Milano. 

Il fatto:

il 12 aprile 1928, giorno previsto per l’inaugurazione della Fiera Campionaria in presenza del Re, lo scoppio di una bomba posizionata alla base di un lampione in ghisa provocò la morte di 14 persone e il ferimento di altre 50. 

Una strage. La Milizia fascista si dà subito da fare per cercare i responsabili e indirizza la sua attenzione verso i nuclei comunisti e anarchici. Viene fermato Romolo Tranquilli, militante comunista e fratello del più famoso Secondino Tranquilli (conosciuto dai più con lo pseudonimo Ignazio Silone) al quale trovano in tasca una rudimentale mappa che indica la piazza dove era posizionata la Fontana delle Quattro Stagioni, per pura coincidenza il punto dello scoppio. In effetti quella traccia di mappa gli era servita per raggiungere il luogo in cui quel giorno si doveva incontrare con Luigi Longo (futuro segretario del PCI).

Tranquilli viene arrestato insieme ad altri sei militanti comunisti; ma dopo poco tutti vengono scagionati poiché il vicecommissario di Polizia Carmelo Camilleri riscontra in maniera oggettiva che gli alibi che forniscono sono sufficienti a non prolungare lo stato di fermo.

La Milizia e i maggiorenti fascisti milanesi fanno in modo che i fermati non siano rilasciati contestando loro il reato di ricostituzione del Partito Comunista e “incitamento all’odio delle classi”.

Vengono così condannati a 12 anni di carcere. Tranquilli muore dopo tre anni nel carcere di Procida.

Non paghi di quelle condanne i fascisti milanesi con in testa Francesco Nudi (Capo dell’OVRA: Opera Volontaria Repressione Antifascista) cercano ancora i responsabili della strage e dopo una presunta soffiata vengono arrestati tutti i dirigenti di Giustizia e Libertà, tra cui Umberto Ceva, un chimico a cui viene mossa l’accusa di aver preparato l’esplosivo. Ceva si suicida nel carcere di Regina Coeli lasciando un biglietto in cui c’è scritto: “Non ho mai fatto nulla, non ho visto nulla, non ho saputo che altri abbia fatto del male a creatura umana”. 

Solo dopo tanti anni (fu Mussolini stesso a voler chiudere quell’inchiesta) maturano dei sospetti e la quasi certezza che la strage della Fiera sia stata il frutto dello scontro tra fazioni nella lotta per questione di potere ai vertici del fascismo.

Da un’intercettazione tra Bocchini (potente fascista, spesso definito Viceduce) e Nudi (OVRA) trapela il sospetto che dietro l’attentato vi sia la mano e un progetto del gerarca Farinacci acerrimo nemico del Federale di Milano Mario Giampaoli e del Podestà Belloni, tutti uomini del fratello del Duce, Arnaldo.

Il vicecommissario Camilleri ha in mano degli elementi inconfutabili che lo portano a nutrire seri sospetti su Giampaoli. Chiede l’autorizzazione al Tribunale Speciale per continuare le indagini ma gli viene negata.

A fronte di questo diniego e alla convinzione che non c’è la volontà da parte dei vertici del Partito Fascista di far venire a galla la verità, rassegna le dimissioni dalla Polizia e poco dopo sarà condannato a cinque anni di confino.

Nulla di nuovo, potremmo dire oggi.


(fonte La storia e idee)

 

giovedì 20 ottobre 2022

Travolti da un insolito destino in una calda serata di agosto..

( immagine di repertorio: Rodolfo, Massimo, Turi Donia, Turi Lentini e Nino)
 

Era una di quelle serate estive, caotiche, in cui pensi, senza dirlo: “Ma quando vanno via tutti per poter stare un po' in pace, seduti su una panchina?”

Questo era il mio pensiero e, suppongo, anche di Rodolfo. 

Nell’ultimo tratto del corso, quello che costeggia la piazza, avevamo smesso di parlare. Non si poteva passeggiare come solevamo fare noi; uno sciame vociante di passeggiatori avventizi, richiamato dalla festa in onore della Madonna Annunziata, affollava il centro del paese. 

 Rodolfo e io ci guardavamo con stupore e qualche filo di rigetto. Non era una delle nostre serate. Noi eravamo abituati ad altro. Non dico che detestavamo la presenza di quella gente festante ma eravamo abituati alle serate sulagne in qualche pizzo di piazza, stravaccati col corpo e i pensieri intenti a rinverdire i racconti messinesi di Rodolfo su ciò che era solito accadere nel crociccio del bar Venuti di Messina, delle gesta della Ràpina, bizzarro amico di “Dolfo”, e di quanto capitava nell’ambito della compagnia oppidese che occupava oziante quell’appartamento in via Tommaso Cannizzaro. 

Erano tutti universitari, una combriccola bene assortita dove spiccava la massiccia presenza di Saveri “Petrolio”. Gli altri non erano da meno e Dolfo, tra tutti, era il vero regista, il genio, il re della coglionella con “C” maiuscola. 

Solo in pochi riuscivamo a leggere, tra le pieghe del suo volto e le occhiate performanti, i momenti di rara serietà. Intesa coltivata per anni, la nostra, e affinata al punto che bastava un cenno con la coda dell’occhio per intuire in quale modalità vivere le situazioni che si paravano davanti.

Anche quella sera d’agosto avevamo gironzolato in cerca di qualcuno anche e solo per un fugace “nzuppamento di tiralla” ma le circostanze non avevano giocato a nostro favore; erano tutti distratti dal clima festoso e dalla musica che riempiva ogni spazio. 

Dolfo e io ci sedemmo, quasi sconsolati, sullo scalone d’accesso al palazzo Zerbi, poco sotto il bar Caratozzolo, inaugurato all’inizio di quell’estate. Quello scalone del primo palazzo costruito nel 1793, dieci anni dopo il terremoto che aveva distrutto la vecchia Oppido, era un po' il rifugio di chi voleva stare in disparte ma nello stesso tempo il punto strategico per garantirsi un controllo sommario e osservare cosa accadesse in piazza.

La noia si stava impadronendo di entrambi quando con somma nostra sorpresa arrivò, intenzionato a sedersi tra noi, Alfredo. Era giovane imbianchino, “credulone e romantico” per dirla alla De Gregori; un ragazzo molto schivo con i più ma disponibile e scialone con noi. 

- Mi fate spazio? – ci chiese.

- Certo- rispondemmo all’unisono, mentre i nostri sguardi si incrociavano meravigliati. 

Pensai: “Cristo affligge ma non abbandona” e qualcosa di simile pensò sicuramente anche Dolfo; lo lessi nell’espressione del suo volto.

Non ci parve vero; l’arrivo di Alfredo fu come una “botta scura”, quel roboante mortaretto che la mattina della festa sveglia dal torpore tutta la cittadinanza per annunciarne l’inizio. 

Si accomodò tra noi, proprio al centro dello scalone, e cominciò a sbirciare tutte le ragazze che procedevano in direzione della piazza dove il “passeggio” faceva capolinea. 

Con Dolfo continuammo a chiacchierare come se nulla fosse. Dovevamo apparecchiare con calma e tirare nella “rizza” Alfredo, che sicuramente non si sarebbe risparmiato aggiornandoci sui suoi progetti strampalati e sulle varie aspirazioni, tra cui quella di divenire un attore; era una ossessione di cui eravamo già a conoscenza e che qualche anno prima lo aveva reso vittima di una colossale carretta.

Il portone si aprì di botto. Ci girammo alzando lo sguardo e ci apparve la sagoma di un signore di minuta corporatura, baffi sul castano chiaro, occhi arrossati e gonfi, capelli in disordine e un “muffo” al collo che gli conferiva una vaga e ruspante somiglianza con Salvador Dalì. 

Ci guardò e, mentre Alfredo si scostava per liberare il passaggio, disse:

- La mi scusate, signori! Devo passare-

L’accento toscano mi diede conferma che quell’uomo, che teneva in mano una tela appena dipinta, era il “pittore” Giametti. Tale si definiva - non so fino a che punto a ragione- e tale era considerato da noi ingenui paesanotti.

 Lo conoscevo; l’avevo visto più volte, durante le estati precedenti, ospite della signora Mancini - ultima inquilina di quel palazzo - a cui lo legava un qualche grado di parentela. Si era fatto notare in diverse occasioni anche nei bar del paese; era un fine degustatore di Vecchia Romagna, il brandy dalla bottiglia triangolare, e dalla postura che assumeva quando deambulava si poteva intuire che non disprezzava gli altri tipi di bottiglie. 

Insomma, un artista che trovava in Bacco la scintilla dell’ispirazione. 

Giametti individuò il varco e, mentre con passo incerto cercò di portarsi sul marciapiede, strusciò con la pittura a olio della tela appena ultimata la camicia di Alfredo, proprio all’altezza della spalla. 

- La mi scusi, signore! Non volevo – esclamò Giametti.

- Non si preoccupi – rispose Alfredo, mentre cercava di valutare il danno subito. In effetti lo struscio aveva lasciato un alone di colore scuro, ma decisamente contenuto, da poter facilmente rimuovere con un fazzolettino di carta inumidito. 

Alfredo aveva già stimato un’inezia quella macchiolina, che sarebbe bastato poco per far andare via e  Giametti, sempre riverente nei suoi confronti ,  ribadendo mille scuse si avviò in direzione del bar Caratozzolo per consegnare il quadro che aveva dipinto su commissione e rappresentava in prospettiva Piazza Umberto I. 

Con Dolfo incrociammo gli sguardi e, in maniera tacita, a suon di occhiate stabilimmo che quella poteva e doveva essere la scintilla per ravvivare una serata fino a quel momento noiosa. 

- Alfredo, fammi vedere – chiese Dolfo.

L’altro girò la spalla, Dolfo scrutò la camicia nella parte lesa e con un mugugno dubbioso esclamò:

- Alfredo, il danno è fatto. La pittura a olio è un insieme di pigmenti che, mischiati con l’olio di lino, diventano devastanti e difficili da rimuovere.

Dolfo, dall’alto delle sue fantomatiche competenze in materia, aveva sentenziato. Alfredo seguì con attenzione le sue elucubrazioni e divenne serio.

- Già! – ripresi io – Dimenticavo che la pittura a olio presenta questi rischi. Fosse stata acrilica l’avresti potuta rimuovere con una “sputazzata” ma, come dice Dolfo, che è esperto in materia visto che suo fratello è scultore, questo è un danno permanente.

Alfredo seguì le nostre tesi alternando l’attenzione con le movenze di uno spettatore che assiste a una partita di tennis. Le teorie inventate al momento trovavano terreno fertile e ce ne accorgevamo dai suoi sguardi preoccupati.

- Alfredo, sei stato fesso! – incalzò Dolfo – Dovevi chiedere il risarcimento del danno!  I pittori sembrano degli scalzacani ma loro tengono “la nicula”. 

E, senza mollare la preda, continuò - Hai visto dove è entrato?  Dai Caratozzolo! Loro gli hanno commissionato il quadro che minimo minimo pagheranno dai due ai tre milioni. Io l’ho guardato il quadro, è una tela 40x50 con diverse campiture. Sono questi dettagli tecnici che danno valore all’opera, oltre al fatto che Giametti, quando allestisce una personale, incassa dai cinquanta ai sessanta milioni; ne fa sei in un anno, immagina un po' che conto in banca avrà.

Dolfo aveva rotto gli argini, stava sorprendendo anche me per tutte le minchiate che aveva sciorinato come certissime conoscenze tecniche, ingigantendo oltre misura la figura dell’ignaro pittore toscano, il quale molto probabilmente si era offerto di dipingere quella tela in cambio di qualche bevuta gratis.

- Ha ragione Dolfo – mi intromisi- i pittori contraggono tutti delle assicurazioni per coprire i danni arrecati a terzi. 

- A terzi? – chiese Alfredo.

-Sì, a terzi- rintuzzai – I terzi siamo noi, gli estranei. Considera che una volta Enzo Guida mi disse che un pittore di Taurianova ha sottoscritto una polizza di trecento milioni per fare fronte a eventuali penali per danni causati a terzi-.

- Ma voi non avete subito il danno! La camicia è mia! – disse convinto. 

Trattenemmo a stento una risata che sarebbe stata liberatoria ma non potevamo chiuderla così. Non si sapeva dove saremmo andati ad approdare ma c’era ancora da fare; avevo persino scomodato il principe degli assicuratori oppidesi, per rendere pregnante la teoria del risarcimento.

Ormai avevamo la certezza che tutte quelle astruse teorie tecniche e di diritto avevano fatto breccia nella testa di Alfredo, prova ne era il suo grugno che diveniva sempre più cupo. La possibilità di poter rivendicare e intascare anche un centinaio di migliaia di lire gli aveva aperto l’appetito e per uno che lavorava estemporaneamente, e per pochi biglietti da mille, sarebbe stato tutto grasso colante.

Continuammo a esternare teorie sulla reazione del lino della camicia quando entra in contatto con i pigmenti del colore- specie i colori scuri – e l’olio di lino, esagerando fino a fargli immaginare che nel punto del contatto si sarebbe formato nel giro di qualche giorno un buco difficilmente riparabile. Insomma, un danno al cui cospetto l’esondazione del Vajont era poca cosa.

Era passata una mezzoretta da quando era avvenuto il fattaccio e notammo che Giametti, con passo caracollante alla cui incertezza aveva contribuito certamente qualche altro “bicchierino” di brandy, stava per fare il percorso inverso.

Giunto davanti a noi:

- La mi scusate, signori! Devo rientrare- disse con garbo e biascicando le parole. 

- Eh no, amico mio! La vuoi passare liscia – esclamò Alfredo inalberato, mentre si alzava e si portava davanti a lui- Ora mi paghi il danno!

- Quale danno? - chiese Giametti meravigliato. 

Il giovane accomodante, che una mezzora prima aveva minimizzato e accettato le scuse per la macchia sulla camicia, adesso si mostrava con un piglio battagliero, deciso a rivendicare il risarcimento di un danno causato dalla pittura del quadro.  

- Ma quale danno! Con un semplice lavaggio la macchia la va via! Porti pure la camicia in lavanderia e le rimborserò i soldi che avrà speso! - ribatté Giametti e, alzando il tono della voce, intimò - E adesso la mi faccia entrare! 

- Amico mio, voglio l’assicurazione! - urlò Alfredo, mentre cercava i nostri sguardi. 

Noi eravamo rimasti impassibili, come se la cosa non ci riguardasse. Entrambi i contendenti durante la disputa cercarono i nostri cenni di assenso. Giametti sperava in un intervento che facesse intendere all’amico nostro di essersi bevuto il cervello e che in effetti il danno non c’era; Alfredo, a sua volta, ci voleva coinvolgere a supporto delle tesi che poco prima avevamo sostenuto a suo favore.

Dolfo fece il primo passo: 

– Sì, vabbè il danno c’è, però cercate di trovare un accordo! – 

Alfredo lo guardò sorpreso e replicò:

-Ma che accordo e accordo! La mia camicia fra un giorno qua avrà un buco – e indicò il punto incriminato – Chi mi rimborserà il costo della camicia? Voglio l’assicurazione! 

Giametti sbarrò gli occhi e urlò:

-Tu se’ tutto grullo, o tu lo fa’ apposta! Sorti di fra' i hoglioni! Sa che c'è? He ora che ne ne entro e te vado in 'ulo a te e la tu' hamicia!

Fece uno scatto ed entrò nell'androne sbattendo il portone e urlando una serie di insulti da fare impallidire anche uno scaricatore di porto.

- Alfredo, lascialo perdere! Certa gente non è giusta di testa. Non hai visto che era ubriaco? Gli effetti dell'alcol sono tremendi- chiosò Dolfo.

Alfredo annuì e si convinse che non era il caso di continuare; pensò che in fondo quello era un povero ubriaco, vittima dell'alcool e con cui sarebbe stato difficile imbastire un discorso in maniera logica e razionale.

E di razionale quella sera in piazza c'era molto, tranne ciò che era accaduto sullo scalone di un antico e nobile palazzo che aveva visto nascere e crescere la città di Oppido, ma che certamente non aveva mai ospitato una scena simile: un litigio tra una persona ubriaca di parole e un'altra che viaggiava sull'allegro andante per via di un altro bicchiere di brandy.

Capita.