martedì 25 settembre 2018

A zuccarina




- Matino partiamo presto - disse mio padre mentre eravamo a tavola. 
- Alle cinque vado a prendere la scecca, alle cinque e mezza, teniti prontu - precisò.
Non aggiunse più nulla, solo mia madre voleva fare qualcosa per risparmiarmi quella domenica alla vigna.
La scuola era cominciata da poco e lei pensava che il mio nuovo dovere scolastico fosse più gravoso e che la scuola media richiedesse meno trascuratezze. 
Per me andare a Sanzo quella domenica era invece una mezza contentezza dettata dalla curiosità di seguire da vicino la misurazione della zuccarina per poi stabilire le date del vindigno.
Di lavoro non avremmo fatto nulla se non stendere la paglia sotto la sorbara in modo che le sorbe, cadendo in modo naturale, non si fracassassero toccando terra, un suolo che dopo un’estate secca e rovente pareva cemento armato. Qualche burrasca estiva aveva cacciato, e per qualche giorno la calura di un luglio torrido, attutita a tratti in agosto e in settembre, ma ora un’aria mite ci stava accompagnando in quei primi giorni di ottobre.
La sorbara era poco lontana dal palmento, non era di proprietà dei Terranova, faceva parte della Batia, nella confinante terra Dei Poveri.
Noi, così come i coloni di Sanzo, la trattavamo come se fosse nostra. Era enorme e nelle giornate di dubra o quando si spagghjarava la vigna diveniva il luogo dove, a mezzogiorno, si tiravano fuori le truscie e si mangiava tutti assieme. Lo spuntone su cui spiccava era il punto più fresco della zona, l’ombra delle frasche della sorbara e una vorija, che in quel punto non mancava mai, accompagnavano quelle pause di riposo.
Facemmo in tempo ad allargare la paglia e a raccogliere i fichi d’india col coppo, gli ultimi rimasti, quando dallo stradone, che attraversava le vigne e l’uliveto della Batia, spuntò la giardinetta di Don Carlo.
Il rombo del motore e il cupigghjuni di polvere, che lasciava dietro, furono d’avviso anche per Nato, il guardiano.
La macchina si fermò davanti al palmento, scesero prima Celestino, il fattore e poi Don Carlo; mio padre si avvicinò al padrone, lo salutò con il solito riguardo e poi mi disse di andare ad avvisare il guardiano e di chiamare gli altri coloni.
Non persi tempo e mi avviai di corsa nel violo che filava dritto tra le partite di vigna. Non ve ne fu bisogno, sia Peppino che mio cugino Cenzo insieme a Nato stavano già arrivando.
Parlarono sull’annata; ognuno di loro disse dei lavori, del tempo, finendo con l’affermare che sarebbe stato un vindigno buono di qualità, ma manchevole di quantità. Il sole e le poche piogge, da come riferirono tutti, avevano alzato sicuramente la bontà del mosto e limitato il quantitativo.
Don Carlo non si mostrò soddisfatto, pareva che a lui interessasse poco la qualità. La sua costante domanda era:
 - ma sarà meno dell’anno scorso?
Nessuno osava sbilanciarsi sulla previsione, anche perché un’annata ricca di mosto non dipendeva esclusivamente dalle piogge; contava molto la pota fatta in inverno e come ogni colono aveva proceduto con la coltura. Tutti fattori che messi assieme determinavano la sorte di un’annata.
A Don Carlo premeva avere una stima di massima. Doveva disporre la preparazione delle capienti botti della cantina “Terranova” per poi procedere alla vendita nel periodo della “smammatura”.
Per lui poco contava la tenuta del vino, era più importante portare in cantina più mosto possibile.
Mio padre, come gli altri coloni, teneva molto invece a una buona riuscita del vino. Quel poco che avrebbe venduto doveva essere buono e che i pochi compratori non si sarebbero dovuti lamentare per la scarsa tenuta, con annesso rimprovero che in poco tempo era andato all’aceto. 
Voleva che si dicesse bene del vino di Sanzo, forse più per orgoglio che per altro.
Celestino aprì lo sportello posteriore della Belvedere, tirò giù una valigetta in legno e non appena dentro il palmento la vuotò del contenuto: un cilindro in vetro e un termometro con alla base un rigonfiamento saturo di palline di piombo.
Quello strumento m’incuriosiva, ogni qual volta lo vedevo cercavo di scrutarlo attentamente per scoprire quale legge fisica potesse determinare in modo preciso la gradazione del mosto. 
Mistero, per me. 
Qualche volta avevo chiesto a mio padre cose spingesse quell’astina graduata, e lui con poche parole mi aveva risposto che la quantità di zucchero presente nel mosto faceva risalire la barretta verso l’alto, e il numero che si sbucava fuori dal mosto, in linea con il bordo del cilindro, indicava la zuccarina. 
Ci rinunciavo, io ci immaginavo lo zucchero di casa e non riuscivo a coglierne la causa.
Tutto fu pronto, mio padre mi chiamo e mi disse:
- Prendi il catino e vai nella partita di vigna di Cenzo, alla quarta resta entra a destra e cogli due grappoli, uno di agghjianicu e uno di lacrima, poi vai a da noi, sotto violo e cogli due grappi, uno di magghjoccu e uno di cuda i vurpi; poi passi da Peppino e quando arrivi alla prima resta, limite della nostra vigna, c’è un pede di champagne, ne basta solo uno di grappo. Prima di tornare vai nelle nostre costereje e aggiungi ancora un grappo di agghjianicu e uno di magghjoccu; finito il giro può tornare.
Non me lo feci dire due volte, presi il cato e corsi via, giù nel violo; mi addentrai nella vigna e colsi i grappoli seguendo le indicazioni di mio padre.
Avevo imparato, negli anni, a riconoscere la qualità della racina. La maggior parte delle viti davano agghjanicu e magghjoccu, poi c’era la lacrima, la champagne, l’occhi i voi, ‘a muscateja, a ‘nzolia, la corniola, e negli ultimi anni aveva innestato anche qualche pede di “bordò”. 
Nel violo che portava alla nostra baracca, sotto alla ficara melangiana c’era un piccola pergola di fragola nera, quei grappi non arrivavano mai a vindigno, la si mangiava prima. 
La cuda di vurpi era la mia preferita, un grappo nel suo insieme sembrava davvero una coda di volpe e quando era nel pieno della maturazione quei piccoli acini divenivano color oro e davano un sapore per me non aveva uguali; la reputavo più buona dello zibibbo. 
Nella nostra partita di vigna c’era un solo piede di zibibbo, mio padre curava quella vite come se fosse la preferita, dalla zolfatura alla spagghjarata. E quando gli acini cominciavano a prendere forma lui ci andava tutte le mattine per verificarne la crescita e per notare se vi fosse presente qualche cocciu di janca.
Era il parassita che colpiva i vitigni più deboli, e il pede di zibibbo per lui rappresentava il testimone da cui riusciva a intuire lo stato di salute della vigna intera.
Gli avevo chiesto come mai non avesse innestato più viti di zibibbo e lui aveva sempre risposto che la zona non offriva una condizione adatta per quella qualità.
Fui di ritorno col cato pieno dei grappi campioni. 






Il guardiano comincio a premerli nello stesso contenitore e quando tutti gli acini furono premuti prese un bicchiere e riempì il cilindro di vetro fino all’orlo e fece calare all’interno l’astina graduata, Don Carlo inforcò gli occhiali, tutti si avvicinarono, anche io; Nato alzò a favore di luce il cilindro da cui colava mosto e sentenziò:
- 23, bonu ! - Ventitrè gradi zuccarina facevano intuire che la gradazione del vino sarebbe stata intorno ai 13° di alcool.
Vidi lo sguardo di mio padre soddisfatto, il risultato diceva che nel giro di qualche giorno si poteva procedere con la vendemmia. Anche il guardiano e gli altri partitari erano dello stesso parere; solo Don Carlo si mostrò restio e disse:
- Possiamo aspettare ancora dieci giorni, poi faremo di nuovo la zuccarina - continuò - questo è il mese delle piogge e una buona piovuta potrebbe dare acqua a questi grappi che sono asciutti.
Il guardiano e i coloni si guardarono, le loro facce non nascosero il disappunto.
- Non possiamo arrivare a fine ottobre col vindigno - fece il guardiano rompendo il silenzio - se la lasciamo ancora sulla vite diviene solo cibo per le vespe.
- Una piovuta adesso non sarebbe d’aiuto, la farebbe “mpurrire”, purtroppo è mancata l’acqua a settembre, quello sarebbe stato il tempo giusto - aggiunse mio padre.
Don Carlo era riottoso e di poche parole, mal sopportava che qualcuno potesse mettere in discussione una sua proposta, era abituato a decidere anche per gli altri, ma in quel frangente capì che non era il caso di insistere.
Vero, la terra era sua, ma il lavoro di un anno, e le fatiche di: pota, scazare, zappare, zolfarare; poi ancora pompiare, un mese e mezzo di verderame dato con la pompa in spalla, per continuare, in piena estate, a ntajare  e spagghajarare, erano state dei coloni.
Sudore e fatica, senza tempo, di uomini e donne; dedizione di famiglie intere dall’alba al tramonto
- A vigna caccia tigna - mi diceva spesso mio padre. In quella frase c’era la considerazione più vera su cosa significhi lavorare una vigna, impegno e preoccupazione costante al punto da far divenire calvo anche il più zazzaruto degli uomini.
Il guardiano usci nello stradone, colse quattro pezzettini di legno tre di uguale lunghezza e uno decisamente più corto. Li chiuse tra le dita facendoli sporgere nella giusta misura, chi, tra i quattro coloni, avesse pescato il piruni più corto avrebbe dovuto dare inizio alla campagna di vendemmia.
Toccò a mio cugino Cenzo, la sorte diede a lui l’incombenza di principiare il vindigno, gli altri sarebbero arrivati a mano girando, procedendo in sequenza per come erano le partite di vigna.
Si stabilirono i giorni sia per la vendemmia che per la cunsinna del mosto; tutto era stato pattuito in modo chiaro, non c’era altro tempo da perdere, la vendemmia poteva avere inizio, ma… questa è un’altra storia. 

giovedì 20 settembre 2018

L'asino, il riso e la morte.






Ci sarebbe da sganasciarsi dalle risate a sentir soloni pontificare intorno alla politica, stregoni ed apprendisti tali; un coacervo di singoli neuroni erranti scappati dalle calotte craniche che imperversano e invadono il cosmo dei social e delle TV. All’apparenza sembra che non arrechino danno alle menti monde, ma la trappola è là, dietro l’angolo.
Allora ploriamo sommessamente e lasciamo il riso a chi ha l’animo minchione, pronto (e inconsapevole) a rischiare la vita.
Sì, di riso e di risate si può morire, così come capitò a Crisippo.
Si narra che Crisippo ebbe il mancamento mortale dopo aver visto il suo asino mangiare fichi e dopo aver ordinato alla sua governante di dare da bere al ciuco del vino dolce non tagliato con l’acqua. Il conseguente “volteggiare” del somaro, ormai colmo di fichi e vino, scatenò nel filosofo una grassissima risata che lo accompagnò alla soglia dell’aldilà. 
E Crisippo non era un babbano. Vissuto nel III secolo a.C., sofista per eccellenza tra i fondatori della scuola di pensiero dello stoicismo; era poco avvezzo ai bagordi e ogni sua azione era dettata dalla ragione e dalla logica del pensiero.
Non disdegnava di predicare che le passioni vissute nella maniera indisciplinata, frutto della mancata applicazione della giusta dose di ragione, possono inevitabilmente condurre ad aberrazioni.
Come potete immaginare aveva tutti gli anticorpi per misurare gli eccessi, ma alla vista dell’asino, caracollante per l’avvinazzo, mollò gli ormeggi e lasciò questo mondo.
Non ridiamo quando sulla nostra via (o schermo) ci si imbatte in asini “inciuchiti” e “imborracciati”, tronfi di cazzonaggine, potrebbe essere letale al punto di trovarci, in un battibaleno, annichiliti nello spirito e nel corpo.
E pensare che gli antichi greci sostenevano che il vino dolce (non annacquato) portasse dritto alla pazzia, per questo motivo lo facevano sposare con l’acqua.
Cosa potremmo fare per mitigare l’azione degli imbelli? 
Tutto si può annacquare, ma sarebbe complicato frenare le uscite di colui che si potrebbe definire con l’anagramma del termine BEATO.
Non ci resta che piangere.
Un pensiero a Troìsi e un saluto a Benigni.

martedì 18 settembre 2018

A Lampa



(Di Franco Borrello)

Ci insegna la saggezza popolare che “lu santu ch’è di marmuru non suda”, ma San Rocco, che era di legno e non di marmo, da qualche giorno aveva cominciato a sudare. E siccome sul sudore dei santi di legno la saggezza popolare non si era mai pronunciata, la gente non sapeva che cosa pensare.
Prima che qualche vecchietta gridasse al miracolo, mastro Ciccio, che di legno se ne intendeva, si affrettò a spiegare l’arcano. Era un problema di stagionatura e di cattive vernici: non c’era rimedio. Infatti, tempo un mese, la statua aveva tante di quelle crepe e scrostature che, piuttosto che ripararla, conveniva farla nuova. E così si fece. La statua nuova fu sistemata accanto all’altare e la vecchia accantonata vicino al confessionale. Ma non tutti gradirono.
Nella tradizione bizantina, per distinguere santi con lo stesso nome vissuti in epoche diverse, spesso a distanza di centinaia di anni, si aggiunge l’appellativo “giovane” o “vecchio” (san Nilo il giovane, san Nilo il vecchio).
A Bova, con questi due appellativi, non due santi si distinsero, ma le due statue: Santu Roccu “lu giuvini” , Santu Roccu “lu vecchiu”. 
Due santi, due partiti. I “progressisti” che accendevano entusiasti i loro ceri davanti alla statua nuova, i “conservatori” che continuavano ad accenderli davanti alla vecchia. In più, gli immancabili opportunisti che, per tenersi da due rami, li accendevano davanti a tutte e due cominciando dalla vecchia, per riguardo dell’età. 
E così, mentre vi era chi bestemmiava Santu Roccu lu vecchiu, convinto che ormai non fosse più peccato, altri, invece, proprio a lui si rivolgevano per invocare grazie, rassicurati dalla sua maggiore esperienza.
Tra questi, il più fanatico era mastro Rocco che il giovane neanche lo guardava, mentre col vecchio era tanto in confidenza che gli parlava di tu a tu e addirittura, una volta che avevano avuto da dire, gliele aveva pure cantate.
Ecco come erano andate le cose: quando Santu Roccu “lu vecchiu” era, diciamo così, titolare, ai suoi piedi ardeva sempre una lampa ad olio ed era proprio il devoto mastro Rocco, che del santo portava il nome, che provvedeva a rabboccarla.
Finché, come fu e come non fu, da un bel giorno l’olio cominciò a sparire. 
Molti ricorderanno che nel “San Giovanni Decollato” uno scomunicato, facendo finta di pregare «Bagnare pane, Madonna, ahum ahum, bagnare pane, Madonna, ahum ahum», inzuppava nell’olio della lampada un pezzo di pane e poi, pian piano, se lo mangiava.
E mastro Agostino lo smascherò col “pepe spezio macinato”.
Lo scomunicato di Bova, invece, non fu mai pizzicato e, così, l’olio continuava a sparire. Mastro Rocco, per non lasciare il santo al buio, provvedeva a versarne dell’altro. Certo, a San Rocco, che in vita tanto bene aveva fatto ai poveri, la cosa non poteva dispiacere ma a mastro Rocco, che quell’olio se lo toglieva dalla bocca, dispiaceva, eccome. 
E così, un bel giorno, smise di rabboccare la lampada, e incazzato se la prese pure col santo:
«Esù theli, Aio Rocco, na mini sto scotìdi: mandè ton embisikkeggue!» 
(Tu voi, santu Roccu, mi resti allu scuru: sinnò lu ssiccavi!).
( Vuoi tu, San Rocco, rimanere al buio: avresti potuto farlo morire)

lunedì 17 settembre 2018

U vinu bonu….. finu a fezza !



- Non jettai nenti! - disse Melo u gucceri, a Vestianu, mostrando ciò che era divenuto il maiale di settantotto chili macellato il giorno prima; sfoggiava vanto per aver fatto un lavoro impeccabile, tantoché aveva lavorato ogni centimetro di carne senza jettare nulla. Poi lo aveva stipato in diverse limbe, tutto pronto per la consegna.
In una c’erano ricchji, pedi e mussa, in un’altra le costate; i gambuni aveva li aveva 'ccijate riempito le budella per satizzi. Il lardo, che sarebbe servito per cuocere le frittole senza acqua, in un’altra insieme alla pancetta; e quest’ultima sarebbe stata la botta scura: grigliata sulla brace ardente, avrebbe saziato gli ultimi brami di fame, ma a vesperi come facevano ogni anno. 
Vestiano aprì il cofano della Fiat 1100 famigliare, mise tutto dentro e si avviò verso la foresta. 
Quel giorno di dicembre, con il Natale già archiviato, doveva essere vissuto come quello degli anni precedenti con l’impegno di banchettare con le carni di un maiale oltre i settanta chili e stillare fino all’ultima goccia due damigiane da venticinque litri di vino novello. Loro non si perdevano di animo, la squadra aveva molato gli incisivi, come se durante quelle feste non avessero mai assaggiato nulla di mangiabile.
Erano di buona forchetta tutti e dodici: Vestianu, Micheli, Mastro Peppe, Mastro Turi, Totò, Ciccio, Nicola, ancora l’atru Ciccio, u Professori Turi, Pascali, Ninu e Saveri.
Non tremavano davanti a oneri così grevi, loro avevano solo bisogno di tempo: tempo e vinazza, dicevano per far intendere che a tavola bisogna tenere il passo giusto, accompagnati da buona vinaccia.
Era la stessa banda che una sera, in un ristorante di Gioia, dopo aver fatto fuori tutte le scorte di pesce, chiese al cuoco di radunare tutte le lische, avanzi di pesce poco prima consumato, e confezionare un sughetto per una ulteriore spaghettata. 
Mah...! Che dire?
“Fiere” da tavola, loro non mangiavano: divoravano. Sapevano tutti i trucchi culinari per cucinare cerbeje, ma si esaltavano quando si davano per cottimo un maiale di settanta chili e i cinquanta litri di vino da consumare da mattina a sera, in un solo giorno.
Il luogo accordava, casa colonica di Vestianu con annesso focolare nelle ribbe di Boscaino, il freddo di stagione e le mmurfurate, o magari la pioggia avrebbero dato il senso giusto dell’intimo e del riposo obbligato, per non aver nemmeno lo scrupolo di aver saltato un giorno di lavoro; non che se ne facessero di fronte a impegni simili.
Vestiano, da padrone di casa, fu promentino, si portò avanti, e con la perizia che non gli mancava dentro la colonica preparò il focolare col fuoco che già andava e un tripode con sopra una caddara in rame per le frittole, sotto la pinnata, al riparo dalla pioggia.
Due fuochi, tanta carne, tante mani esperte per mandibole addestrate. 
Giunsero tutti in ordine sparso, scaricarono le vettovaglie, il vino, un sacco di pane da Rragna e armarono il campo. 
Era un combinato di competenze, sapevano a memoria procedure e tempi di cottura, tutto doveva essere in sincrono; già alle dieci di mattina i fumi delle costateje arrostiste riempivano le narici. 
Rrusti e mangia, mangia e rrusti la giornata si avviò col suono delle spisie del focolare e col profumo e il fumo di ciò che arrostiva: costateji e satizzi. Si aprirono i canali delle damigiane, i primi litri andarono via per le cannate d’assaggio. 
Prima di mezzogiorno le costateje erano finite, le salcicce scemavano lisce e il vino innaffiava abbondante. Il pranzo fu solenne e i brindisi fioccarono ad ogni alzata di gomito:
- A rrobba bona finu a pezza…u vinu bonu finu a fezza!.
Chi mai avrebbe potuto dissuadere, da quel proposito, quell’accolita d’inappetenti?
Intento impegnativo, ed era il modo per dire che l’obiettivo sarebbe stato arrivare al fondo della botte, cioè bere tutto e sfiorare il fondo dove era depositata la fezza, in quel caso le damigiane.
Sapevano cosa dicevano e lo facevano convinti, al fondo bisognava arrivare. 
Battagliarono, il pomeriggio fu tosto, le frittole cotte al punto giusto non sdingarono il palato dei nostri, loro volevano solo tempo e a dire il vero se l’erano preso. 
Nelle prime ore del pomeriggio, in alternanza con mussa e pedi, qualcuno accordò la chitarra e Mastro Peppe cominciò il suo repertorio: 

..O bella sigaretta così bianca,
che vai consumandoti al calore,
io che ti reggo con la mano stanca
so quanto è falso il tuo candore.
Sei bianca fuori ma il tuo corpo è pieno
di biondo sottilissimo veleno…

“Come una sigaretta” era il suo cavallo di battaglia e non appena i vapori di Bacco superavano i livelli, lui, Mastro Peppe, iniziava così, era il segnale che lo show aveva inizio. 
Ciccio si accodò con la fisarmonica e da quelle corde vocali ingrassate dal lardo delle frittole vennero fuori improbabili stornelli e acuti da far scappare anche i ranunchi di quelle ribbe.
Il manto del vespero, di quel giorno d’inverno, colse i nostri sazi, carichi e con gli occhi piccoli; non fecero in tempo a ultimare la mangiata: il dolce era rimasto fuori e dimenticato.
Ormai avevano rotto le fila e si muovevano spinti più dal vino senza seguire logiche, qualcuno urlo tra le ombre dell’aranceto: 
- Il dolce lo mangiamo in piazza, a Oppido!
- Sì! - risposero i più
- Si va a Oppido per il dolce e poi si continua con le serenate!
In quattro e quattr’otto radunarono le cose necessarie, si misero in macchina e si avviarono per Oppido.
La piazza grande assolata e fredda li accolse, scesero e si radunarono per tagliare i panettoni e aprire spumanti; qualcuno chiamò: 
- Peppe ! Dai la chitarra !
Peppe non rispose, ntassarono tutti. Si guardarono intorno e Mastro Peppe non c’era. I loro sguardi cangiarono, l’allegrezza di qualche minuto prima aveva ceduto al posto alla preoccupazione. Dove era andato a finire Mastro Peppe?
- Michele ! non era con te in macchina ? chiese Vestiano.
- Sì, stamattina era con me, ma pensavo che adesso fosse venuto con te..
La preoccupazione occupò i loro pensieri e dai loro volti sparì l’allegria. Dov’era andato a finire Mastro Peppe? Se l’erano dimenticato oppure qualche malore l’aveva colto nei meandri ormai bui dell’aranceto?
Michele e altri due si misero in macchina alla volta di Boscaino, percorsero quei quattro chilometri in silenzio, il pensiero che fosse capitato qualcosa annebbiava i pensieri.
Giunsero davanti alla casa colonica, alzarono i fari: nulla. 
Mastro Peppe non c’era, scesero e a distanza udirono una voce che cercava di intonare:

.. buonanno a chi è felice nella vita
buonanno alla spigliata gioventù...!

Grazie a Dio, pensarono, Mastro Peppe era lì, nell’aranceto che si accompagnava con la chitarra a cui erano rimaste solo due corde, la passione con cui intonava la canzone era la solita, come se uno stuolo di spettatori fosse davanti a lui.

- Mastro Peppe! pe’ la miseria ‘ndi pigghiammu ‘nu sali! -  urlò Michele.
Lui si girò e incrociò il suo sguardo, smise di cantare e lo riguardò. Era palese il suo serio stato di ubriachezza, ma ciò non impressionò nessuno.
Lo guardò ancora senza scomporsi e disse:
- Michele, menu mali ca’ morimu, sennò sta vita cu a faciva! 
Si alzò con l’aiuto degli amici e si avviò con loro.



( un grazie a Michele Musicò, testimone dei fatti)

sabato 15 settembre 2018

Una tassa particolare


Il termine “blachenonmio” ( dal greco: [blakennomion (telos)], composto di [blax] pigro, stupido e [nòmos] legge) significa tassa sulla stupidità.
Nell’antica Grecia esisteva questa particolare imposta che andava a colpire i redditi degli astrologi, già da allora considerata una professione che tendeva a speculare sui creduloni e sugli sciocchi. Siccome lo sciocco, spesso, rappresenta un costo per la società, sembrava giusto ricavare i profitti di chi ci arricchiva sopra.
La stupidità indicata dal termine non è di carattere generico, ma si tratta specificamente della stupidità che nasce dalla pigrizia.
Es: “sono consapevole di fare qualcosa di sciocco, ma mi annoia riflettere”.
Il principio del “blachennomio” non è andato perduto, oggi è il SuperEnalotto, ma con il termine blachennomio vengono indicati gli introiti che lo Stato acquisisce tassando la “scempiaggine” dei cittadini.
Tutto ciò ci svela senza mezzi termini quanto, anche nell’antica Grecia, fosse alto il tasso di credulità delle persone e la furbizia dello stato a tassare i redditi di coloro che approfittavano dei creduloni.
Torniamo a noi: immaginate per un attimo se i governi italiani degli ultimi trent’anni avessero voluto tassare le seguenti categorie di personaggi: cazzari, spaccalampi, imbonitori, ciarlatani, falsi e imbecilli.
Avremmo sicuramente introitato tanto danaro da poter eliminare l’irpef , l’irap; alzare le pensioni minime, pagare il reddito di cittadinanza per tutti i disoccupati ed avremmo drasticamente ridotto il debito pubblico.
Ciò non è accaduto, nessuna legge è stata prodotta in tal senso. Non potevamo pretendere, dimenticavo: nessun tacchino organizza la festa del Ringraziamento come nessun agnello si prodiga a preparare la festa di Pasqua.

lunedì 10 settembre 2018

Ah ch'è bellu u cafè!







Io ero tra coloro che portavano qualche libro a scuola,  Giorgio invece diceva:
– Che motivo c’è di portarli a casa quando il giorno dopo li devi ricaricare sotto braccio?
A suo modo aveva ragione e li lasciava lì sotto il banco. Mararosa lo sapeva e non li toccava. Faceva il Corso sia a scendere sia a salire a mani libere, fumando come un tabaccante incallito; era l’ultimo a entrare a scuola e il primo a uscire. 
Forse la struttura del Liceo non era il massimo dell’ospitalità: rassomigliava a un carcere e dava un forte senso di costrizione a buona parte di quella generazione di scavezzacollo. Il geometra nel progettare la struttura non si era spremuto più di tanto e l’aveva concepito in quel modo. Un quadrato, la maggior parte delle classi distribuite al primo piano e una balconata come le case di ringhiera cosicché era sufficiente che il Preside si mettesse al centro del piano terra per controllare tutto. Si usciva da scuola come se si venisse fuori dai lavori forzati e si sciamava su per il Corso. 
Io ero sempre con Giorgio e Ciccio e all’angolo di Caratozzolo ad aspettarci c’era Mimmo, apprendista muratore, “menza manicula” e fino a quel momento manovale. 
Si faceva un tre secco a bigliardino da Caciagna: partita rivincita e bella. La coppia perdente pagava il “coccotello” (cocktail San Pellegrino)) agli altri due. 
Non avevo obblighi di rientro a casa, i miei erano in campagna, nemmeno Ciccio ne aveva, lui sarebbe stato impegnato dalle tre in poi, in tipografia; Mimmo ‘mpajava da li a poco e Giorgio subito dopo il pranzo aveva l’impegno di aprire il bar di Alfredo, alle due. 
Si aveva il tempo di giungere a casa che già ci si ritrovava di nuovo in piazza, al bar. Giorgio arrivava già “ddubbatu”, apriva il bar e si passava subito al caffè, com’e genti boni. 
– Guardate che crema! - 
Diceva, mentre mostrava l’interno della tazza del suo caffè, osannando le sue presunte doti di barista. Si riteneva grandemente all’altezza del compito che gli aveva affidato Alfredo, suo zio. Esperto barista per un’ora al giorno: dalle due alle tre, poi arrivava sua zia Carmelina a dargli il cambio. Da quel momento scattava il “liberi” tutti, fino al giorno dopo. 
Fu in un pomeriggio di autunno inoltrato che congiuntamente a noi arrivò al bar, suppongo dalla vicina banca, un forestiero dai tratti eleganti e dall’ atteggiamento austero.
 – Buongiorno 
 – Salute - rispose Giorgio squadrando il soggetto con sufficienza come chi sa il fatto suo. 
– Un caffè …ristretto - ordinò con finezza e un mezzo sorriso. 
– Subito – non tardò Giorgio, e già svuotava con due colpi secchi la posa di un braccio a due beccucci dalla Cimbali a pressione. Dosò il caffè con la manopola del misuratore, pressò con la giusta forza per compattare il tutto agganciò il braccio e pressò la leva. Si girò verso il banco e incrociò l’incontenibile agitazione di Cicciareju, abituale cliente e giocatore incallito al Totocalcio, il quale con impazienza chiedeva notizie su un Bollettino che attestasse la vincita di un dodici, come mostrava ai quattro venti dalla “Figlia” in suo possesso.  
– Ciccio non è ancora arrivato il bollettino! Non ci “scorciuliari”! se dovesse arrivare ti sarà comunicato - precisò intollerante Giorgio, ma molto più garbato del solito forse per la presenza del forestiero. Furono poche battute, ma rubarono del tempo a Giorgio e allungarono la calata del caffè che aveva già colmato oltre metà tazzina. Giorgio lo levò di fretta da sotto il braccio e una goccia abbondante sporcò, colante, l’esterno della tazzina. Senza scomporsi prese lo straccetto e pulì con cura fino al bordo tazza. Il signore rimase immobile e guardingo, si gustò la scena e mentre buttava l’occhio dentro la tazza si pronunciò: 
– Avevo detto ristretto – Disse l’uomo marcando il tono e facendo intendere che non avrebbe mai fatto poggiare sulle sue labbra quella tazzina poco prima pulita da Giorgio con la spugnetta del lavello. 
– Non c’è problema !
Disse Giorgio con sicumera; prese la tazzina, la piegò nel lavandino e sotto gli occhi increduli dell’avventore fece colare metà del caffè contenuto. Pulì ancora la scia del caffè sulla tazza con lo straccio di prima e la posò sul piattino con un tocco del suo innato e proverbiale garbo. 
– Ecco! - disse con affannata soddisfazione. 
Il signore seguì tutti i passaggi e le “accortezze” usate da Giorgio, riguardò il caffè con mezza smorfia sulle labbra e con sommo distacco chiese: 
– Quanto pago?
 – Cento lire – rispose Giorgio. Tirò fuori cento lire dalla tasca le poggiò sul bancone e senza scomporsi si avviò verso l’uscio.
 – Il caffè non lo beve ? – chiese Giorgio sorpreso, come a chiedersi “che avrò mai combinato ?” 
– No, mi è bastato il profumo – disse con una punta di strafottenza e uscì. Giorgio guardò lui, poi noi che già eravamo sul punto di esplodere con la cugghjunella:
– Va capiscili a cert’uni, ti manda l’unda! 
– Certa genti non è giusta i ceraveju !