lunedì 17 settembre 2018

U vinu bonu….. finu a fezza !



- Non jettai nenti! - disse Melo u gucceri, a Vestianu, mostrando ciò che era divenuto il maiale di settantotto chili macellato il giorno prima; sfoggiava vanto per aver fatto un lavoro impeccabile, tantoché aveva lavorato ogni centimetro di carne senza jettare nulla. Poi lo aveva stipato in diverse limbe, tutto pronto per la consegna.
In una c’erano ricchji, pedi e mussa, in un’altra le costate; i gambuni aveva li aveva 'ccijate riempito le budella per satizzi. Il lardo, che sarebbe servito per cuocere le frittole senza acqua, in un’altra insieme alla pancetta; e quest’ultima sarebbe stata la botta scura: grigliata sulla brace ardente, avrebbe saziato gli ultimi brami di fame, ma a vesperi come facevano ogni anno. 
Vestiano aprì il cofano della Fiat 1100 famigliare, mise tutto dentro e si avviò verso la foresta. 
Quel giorno di dicembre, con il Natale già archiviato, doveva essere vissuto come quello degli anni precedenti con l’impegno di banchettare con le carni di un maiale oltre i settanta chili e stillare fino all’ultima goccia due damigiane da venticinque litri di vino novello. Loro non si perdevano di animo, la squadra aveva molato gli incisivi, come se durante quelle feste non avessero mai assaggiato nulla di mangiabile.
Erano di buona forchetta tutti e dodici: Vestianu, Micheli, Mastro Peppe, Mastro Turi, Totò, Ciccio, Nicola, ancora l’atru Ciccio, u Professori Turi, Pascali, Ninu e Saveri.
Non tremavano davanti a oneri così grevi, loro avevano solo bisogno di tempo: tempo e vinazza, dicevano per far intendere che a tavola bisogna tenere il passo giusto, accompagnati da buona vinaccia.
Era la stessa banda che una sera, in un ristorante di Gioia, dopo aver fatto fuori tutte le scorte di pesce, chiese al cuoco di radunare tutte le lische, avanzi di pesce poco prima consumato, e confezionare un sughetto per una ulteriore spaghettata. 
Mah...! Che dire?
“Fiere” da tavola, loro non mangiavano: divoravano. Sapevano tutti i trucchi culinari per cucinare cerbeje, ma si esaltavano quando si davano per cottimo un maiale di settanta chili e i cinquanta litri di vino da consumare da mattina a sera, in un solo giorno.
Il luogo accordava, casa colonica di Vestianu con annesso focolare nelle ribbe di Boscaino, il freddo di stagione e le mmurfurate, o magari la pioggia avrebbero dato il senso giusto dell’intimo e del riposo obbligato, per non aver nemmeno lo scrupolo di aver saltato un giorno di lavoro; non che se ne facessero di fronte a impegni simili.
Vestiano, da padrone di casa, fu promentino, si portò avanti, e con la perizia che non gli mancava dentro la colonica preparò il focolare col fuoco che già andava e un tripode con sopra una caddara in rame per le frittole, sotto la pinnata, al riparo dalla pioggia.
Due fuochi, tanta carne, tante mani esperte per mandibole addestrate. 
Giunsero tutti in ordine sparso, scaricarono le vettovaglie, il vino, un sacco di pane da Rragna e armarono il campo. 
Era un combinato di competenze, sapevano a memoria procedure e tempi di cottura, tutto doveva essere in sincrono; già alle dieci di mattina i fumi delle costateje arrostiste riempivano le narici. 
Rrusti e mangia, mangia e rrusti la giornata si avviò col suono delle spisie del focolare e col profumo e il fumo di ciò che arrostiva: costateji e satizzi. Si aprirono i canali delle damigiane, i primi litri andarono via per le cannate d’assaggio. 
Prima di mezzogiorno le costateje erano finite, le salcicce scemavano lisce e il vino innaffiava abbondante. Il pranzo fu solenne e i brindisi fioccarono ad ogni alzata di gomito:
- A rrobba bona finu a pezza…u vinu bonu finu a fezza!.
Chi mai avrebbe potuto dissuadere, da quel proposito, quell’accolita d’inappetenti?
Intento impegnativo, ed era il modo per dire che l’obiettivo sarebbe stato arrivare al fondo della botte, cioè bere tutto e sfiorare il fondo dove era depositata la fezza, in quel caso le damigiane.
Sapevano cosa dicevano e lo facevano convinti, al fondo bisognava arrivare. 
Battagliarono, il pomeriggio fu tosto, le frittole cotte al punto giusto non sdingarono il palato dei nostri, loro volevano solo tempo e a dire il vero se l’erano preso. 
Nelle prime ore del pomeriggio, in alternanza con mussa e pedi, qualcuno accordò la chitarra e Mastro Peppe cominciò il suo repertorio: 

..O bella sigaretta così bianca,
che vai consumandoti al calore,
io che ti reggo con la mano stanca
so quanto è falso il tuo candore.
Sei bianca fuori ma il tuo corpo è pieno
di biondo sottilissimo veleno…

“Come una sigaretta” era il suo cavallo di battaglia e non appena i vapori di Bacco superavano i livelli, lui, Mastro Peppe, iniziava così, era il segnale che lo show aveva inizio. 
Ciccio si accodò con la fisarmonica e da quelle corde vocali ingrassate dal lardo delle frittole vennero fuori improbabili stornelli e acuti da far scappare anche i ranunchi di quelle ribbe.
Il manto del vespero, di quel giorno d’inverno, colse i nostri sazi, carichi e con gli occhi piccoli; non fecero in tempo a ultimare la mangiata: il dolce era rimasto fuori e dimenticato.
Ormai avevano rotto le fila e si muovevano spinti più dal vino senza seguire logiche, qualcuno urlo tra le ombre dell’aranceto: 
- Il dolce lo mangiamo in piazza, a Oppido!
- Sì! - risposero i più
- Si va a Oppido per il dolce e poi si continua con le serenate!
In quattro e quattr’otto radunarono le cose necessarie, si misero in macchina e si avviarono per Oppido.
La piazza grande assolata e fredda li accolse, scesero e si radunarono per tagliare i panettoni e aprire spumanti; qualcuno chiamò: 
- Peppe ! Dai la chitarra !
Peppe non rispose, ntassarono tutti. Si guardarono intorno e Mastro Peppe non c’era. I loro sguardi cangiarono, l’allegrezza di qualche minuto prima aveva ceduto al posto alla preoccupazione. Dove era andato a finire Mastro Peppe?
- Michele ! non era con te in macchina ? chiese Vestiano.
- Sì, stamattina era con me, ma pensavo che adesso fosse venuto con te..
La preoccupazione occupò i loro pensieri e dai loro volti sparì l’allegria. Dov’era andato a finire Mastro Peppe? Se l’erano dimenticato oppure qualche malore l’aveva colto nei meandri ormai bui dell’aranceto?
Michele e altri due si misero in macchina alla volta di Boscaino, percorsero quei quattro chilometri in silenzio, il pensiero che fosse capitato qualcosa annebbiava i pensieri.
Giunsero davanti alla casa colonica, alzarono i fari: nulla. 
Mastro Peppe non c’era, scesero e a distanza udirono una voce che cercava di intonare:

.. buonanno a chi è felice nella vita
buonanno alla spigliata gioventù...!

Grazie a Dio, pensarono, Mastro Peppe era lì, nell’aranceto che si accompagnava con la chitarra a cui erano rimaste solo due corde, la passione con cui intonava la canzone era la solita, come se uno stuolo di spettatori fosse davanti a lui.

- Mastro Peppe! pe’ la miseria ‘ndi pigghiammu ‘nu sali! -  urlò Michele.
Lui si girò e incrociò il suo sguardo, smise di cantare e lo riguardò. Era palese il suo serio stato di ubriachezza, ma ciò non impressionò nessuno.
Lo guardò ancora senza scomporsi e disse:
- Michele, menu mali ca’ morimu, sennò sta vita cu a faciva! 
Si alzò con l’aiuto degli amici e si avviò con loro.



( un grazie a Michele Musicò, testimone dei fatti)

1 commento:

  1. Alla VI riga "i gambuni aveva li .... ecc." devi risistemare.
    Noi a Tresilico diciamo "ccijari" per "tritare".
    Non c'è che dire: maestro di narrazione.

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