mercoledì 26 giugno 2019

Un paese...





“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

(Cesare Pavese)


Non può essere
Dicono che morrai, paese mio,
malato di diaspora,
che all'ombra dei tuoi monti
solo morti resteranno
e alberi...
Io dico no!, non può essere
che questa terra senza nome resti,
che sia vano questo nascere questo soffrire questo vivere. 
che i figli lontani una madre non abbiano
cui guardare come meta dei loro sogni di zingari.

(Stelio Pandolfini) 


Non penso di essere irriverente nei confronti di nessuno se mi azzardo ad accostare un passo di Cesare Pavese a una poesia di Stelio Pandolfini. Entrambi gli autori si sono chiesti sul valore delle radici, il peso delle origini in ogni essere umano. 
Il primo, nel suo romanzo La luna e i falò, torna, col personaggio Anguilla, a cercare le sue origini e i colori della sua infanzia in compagnia dell’amico Nuto al quale lo legano tanti ricordi di un passato allegro e spensierato.
Pandolfini, invece, nella sua lirica Non può essere, non vuole immaginare la scomparsa delle radici, teme che "questa terra senza nome resti", (stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus?) e si rifiuta di credere che la diaspora non possa più pensare alla propria terra come meta e guardarla come madre di figli gitani. 


Stelio Pandolfini, nato a Santa Cristina D’Aspromonte nel 1926, è morto a Roma nel 2011.
 “Scrittore e Poeta di Calabria” cita il manifesto che ne annuncia la morte (F.te Rocco Liberti – Storicittà).
Cristinese di nascita e oppidese di adozione, tra le sue opere:
“La fiumara va così” ( Galzerano Editore) e “Il Sogno ( ogni uccello nel suo bosco) Rubettino Editore.
Il prof. Rocco Liberti ha dedicato Stelio Pandolfini una pagina importante sulla rivista “Storicittà”( Settembre 2011) dove con estrema cura traccia il profilo umano e lo spessore letterario dell’autore.

Ringrazio la nipote Ester Pandolfini per avermi donato la poesia 
“Non può essere”.

domenica 23 giugno 2019

Ssettati Totò ..!!





(Libera interpretazione di un fatto narrato da Don Ninì Polistena) 

Avere degli ideali, e vivere cercando di perseguirli poiché pensi che siano i più giusti e che possano essere il cemento per una società più civile e più giusta, credo sia un comune denominatore per tutte le coscienze.  Farsi portatori di istanze politiche è altresì cosa molto comune, connaturata nell’uomo e si manifesta a tutti i livelli: sia locali che nazionali.
Ebbene, dalla dinamica della contesa e della contrapposizione ideale, per lunghi anni, non fu scevro nemmeno il Circolo Operaio di Oppido (di cui mi onoro di essere socio non residente). Sarà perché Oppido è sempre stato un comune politicamente attivo dove le contrapposizioni politiche hanno dato vita ad accese battaglie tra diverse e opposte fazioni.
Il Circolo Operaio, frequentato negli anni dalla classe operaia, dagli artigiani e negli ultimi tempi anche dalla piccola borghesia, è stato spesso un luogo di contrapposizione di idee, di cordate e di fazioni nate col proposito di dare un direttivo per la gestione dello stesso. Infondo bisognava gestire le entrate: le bollette dei soci; e le uscite: salario del messo, canone simbolico per l’affitto dei locali, abbonamento televisivo, l’acquisto di due quotidiani e tutte le spese straordinarie che riguardavano arredi (sedie, tavolini e divani). 
Tutto filava liscio fino a pochi mesi prima delle elezioni del direttivo, in prossimità di questa scadenza cominciavano i movimenti per la composizione delle quadre da proporre come nuovo direttorio. Ogni potenziale candidato a Presidente portava cose nel pacchetto delle candidature il Segretario e il Cassiere. Questa funzione si rivelava di notevole importanza, poiché era colui che ogni fine mese doveva provvedere alla riscossione delle bollette; una presenza massiccia di morosi stava a indicare una scorretta amministrazione.
Ma la cosa che assumeva un certo peso politico era la capacità di trattare in termini economici le forniture delle bibite: perlopiù la birra.
Le sale erano adibite al gioco delle carte: Popolo, Calabrisella, Tresette, Briscola, Scopa e a volte qualche Ramino; ma durante domeniche e festivi si combinavano squadre di fuoriclasse per interminabili passatelle a Padrone e Sotto (a primera). Non vi erano limitazioni di sorta, ma il buon socio doveva essere: educato, non doveva bestemmiare, non doveva gridare e tenere comportamenti irriguardosi nei confronti di tutti, e non ultimo doveva pagare l’obolo in maniera regolare. Chi contravveniva ai regolamenti rischiava la sospensione (da parte dei probi viri) per un tempo congruo in rapporto a quanto aveva combinato.
Fu così che Totò, spinto da una voglia di cambiamento, decise di prendere parte attiva all’amministrazione e si candidò a Presidente, con Don Ninì candidato alla carica di Segretario. 
Il ticket era di quelli forti, nomi importanti, personaggi di rilievo dell’associazione; uomini probi, degni di cariche anche più importanti nella piccola comunità oppidese. 
La sfida venne lanciata all’amministrazione uscente; i cavalli di battaglia per la campagna elettorale furono i temi classici: riscossione corretta delle bollette, abbellimento della sede, cambio del panno della carambola. La campagna elettorale fu tosta, senza esclusione di colpi; i centotrenta votanti furono, in quei mesi, coccolati da tutti i candidati; da parte dei nuovi ogni occasione era buona per denigrare l’operato degli uscenti, così come gli uscenti non perdevano colpo per dire che i nuovi non avevano l’esperienza giusta per il governo del Circolo.
Venne il giorno delle elezioni; il seggio fu aperto alle 8 di mattina e per tutta la giornata, presidente e due scrutatori condussero con solerzia le operazioni di voto. 
Alle 20,00 il seggio venne chiuso e si registrò un afflusso 128 votanti, il 98,5 % degli aventi diritto.
Subito dopo la chiusura dell’urna il presidente di seggio predispose i tavoli per lo spoglio, furono chiamati i probi viri per prendere in maniera diretta allo di scrutinio.
A ogni scheda scrutinata un brusio riempiva la sala, la trepidazione saliva in entrambi gli schieramenti. Fu un testa a testa fino all’ultima scheda; e quando il presidente di seggio diede lettura dei risultati:

Votanti 128
Totò G. voti n° 67
Ciccio Z. voti n° 57
Schede bianche/nulle n° 4

<< Proclamo eletto Presidente Totò G. ! >> 
Urlò in maniera solenne il presidente di seggio. Un lungo applauso accompagnò la proclamazione e dalla sala gremita si levò un coro: << discorso ! discorso ! discorso!>>.
Era d’uso che il Presidente eletto, che prendeva da subito in mano le redini del Circolo, rivolgesse un saluto alla platea e pronunciasse per sommi capi quali sarebbero state le sue politiche e le azioni programmatiche.
Il triumvirato si portò dietro al banco della presidenza, Totò rimase in piedi, Don Ninì insieme al segretario si sedettero ai lati e Totò prese la parola:
<< Carissimi soci, innanzitutto vi ringrazio per la fiducia che avete riposto in me, saranno due anni di impegno e sarà mia premura cominciare a mettere ordine in molte cose>>.
La sala ammutolì. Don Ninì, che era seduto accanto, intuì che un discorso duro avrebbe sollevato dubbi anche in coloro che li avevano votati e in maniera discreta tiro la coda della giacca di Totò per fargli capire di essere breve senza toccare temi sensibili. Totò, immerso in una luce di potenza, continuò:
<< Proporrò al direttivo nel giro di qualche giorno di approvare il “divieto di fumo” in tutte le sale…>>. Non finì la frase che un brusio in sala aumentò al punto di interrompere il discorso, qualche voce in dissenso si alzò. Don Ninì aumentò i “tiramenti di giacca”, conosceva bene gli astanti e prevedeva le reazioni. 
Totò non volle sentire ragioni:
<< Proporrò che a padrone e sotto si potrà giocare solo di domenica e festivi e con tavoli non superiori a cinque giocatori…>>
A sto punto i rumori delle sedie, le voci e imprecazioni dei soci coprirono le parole, le bordate dei fischi arrivarono da ogni dove. Don Ninì si alzò e urlò nell’orecchio di Totò: 
<< Totò ssettati pe favuri! >>
Totò, imperterrito, continuò:
<< Per i morosi saranno presi provvedimenti in tempi rapidissimi con sospensioni che possono essere anche di mesi…>>.
La sala a questo punto ruppe ogni indugio e cominciò a imprecare contro i neo eletti.
Don Ninì non tenne più si alzò e senza indugiare:
<< Ssettati Totò ca ‘ndi  caccianu puru i soci!!>> . 
In effetti lo scenario che avevano davanti non faceva presagire nulla di buono col rischio, non solo di ammutinamento da parte dei soci, di trovarsi radiati anche dall’essere soci.
A riprova che le regole vanno bene solo se applicate a qualcuno a cui si possa guardare, mai su di noi.
A nu parmu du me…..

venerdì 21 giugno 2019

Bompisu!






-  Domattina, quando andrai a comprarti il giornale, passa dai contadini e compra dei pomodori e un po' di verdura- Mi disse mia moglie.
Eravamo arrivati da qualche giorno a Marina, e come tutti gli anni, oltre alla voglia di sano ozio sotto l’ombrellone a pochi metri dal nostro mare, sentivamo il bisogno di riappropriarci di alcuni sapori che solo pochi luoghi ti sanno ancora dare; sicché all’indomani inforcai la bicicletta e presi la strada per la piazzetta.  
Loro, i contadini, erano già lì; in ordine sparso, all’ombra degli alberi della piazza, sul marciapiede; cassette ordinate con ortaggi e frutta esposte a pochi metri l’uno dall’altro.
Sguardi discreti, quasi timidi; un alone di pudore congenito faceva da cornice alle mercanzie che offrivano.
Mi avvicinai al primo, in una cassetta spiccava il colore “meliss” dei pomodori a “loto”; in un’altra cassetta rividi “le cime di cucuzzara”. 
- Buongiorno, vorrei un chilo di pomodori e due mazzetti di cime.
-  I pomodori un euro al chilo, e le cime due mazzetti un euro.
Mi rispose l’uomo, dichiarandomi il prezzo senza che io l’avessi chiesto.
Prese un sacchetto di carta lo aprì e mi disse: 
-   Scegliete quelli che vi piacciono.
-   No, fate voi- Risposi
Le sue mani cominciarono a selezionare i pomodori più belli. Riempì il sacchetto, lo poso sulla bilancia (da cucina) e la lancetta segnò il peso.
-   Un chilo e due, bompisu.
Prese un sacchetto più grande e ci infilò dentro le cime, e mentre me lo stava per dare lo ritirò e infilo un terzo mazzo di cime.
-   Bompisu, anche con le cime.
-   Quanto pago ? chiesi.
-   Due euro - rispose.
-  Come due euro? I pomodori sono più di un chilo e sono tre mazzetti di cime - ribadì.
-   Il “bompisu” ve lo mangiate alla mia salute -. Sorrise con gli occhi.
Tirai fuori cinque euro e glieli diedi. Lui li prese con una mano, mentre con l’altra si mise a frugare le sue tasche per cercare gli spiccioli di resto. 
-  Me li date la prossima volta, siete il primo cliente e non ho resto -.
-  No, facciamo così: vi lascio il resto e la prossima volta che vengo scontiamo. E poi come fate a fidarvi di me? È la prima volta che mi vedete -. Gli dissi sorridendo, tra il serio e il faceto.
-       Non siete di “malanimo”, si legge in fronte -. Mi rispose.
Sorridemmo entrambi. Misi i sacchetti nel cesto della bici e me ne andai lasciandolo con l’aria incredula e i cinque euro in mano.
Passarono dei giorni, quando una mattina, dopo aver bevuto il caffè al bar e mentre stavo per entrare in edicola per comprare il giornale senti bussare sulla spalla, mi girai e…
-   Buongiorno, questi sono i suoi tre euro di resto. 
-  Ma no, non voglio il resto, mi darà altri ortaggi la prossima volta. Non state a pensare ai tre euro, anzi venite con me al bar che vi offro il caffè-. Gli dissi.
- Non bevo caffè, vi ringrazio. Allora vi aspetto per quando verrete a comprare i pomodori-. 
Ci salutammo con una stretta di mano, una tra le più belle strette di mano della mia vita, e pensai che per quegli occhi sorridenti e per quell’innata onestà non ci sarà mai un “prezzo a pagare”.

lunedì 17 giugno 2019




“È passato il tempo in cui Berta filava”



Un modo di dire per indicare “quei tempi sono andati”. All’origine di ciò vi è una leggenda, che di seguito accennerò, ma nel recente passato, “Berta filava” fu il titolo che Rino Gaetano diede a una sua canzone di successo. I suoi testi, criptici, hanno spesso in seno delle narrazioni di fatti politici e non, che Rino sapeva cogliere e trasportare tra le righe.
Nella fattispecie pare che l’autore volesse raccontare come avvennero i fatti che portarono allo scandalo Lockheed, nei primi anni ’70, e  che videro coinvolti molti politici italiani, tra cui Mario Tanassi e Luigi Gui. E pare il nome “Berta” sia il diminutivo di Robert, Robert Gross, il Presidente dell’allora compagnia costruttrice di aerei.

“E Berta filava, 
filava con Mario 
e filava con Gino
e nasceva il bambino
che non era di Mario 
e non era di Gino”.

(Bert si accordava con Mario e Gino (Tanassi e Gui) e nasceva il bambino (lo scandalo) non era di Mario non era di Gino (che tutti rinnegavano)



Leggenda….(forse è più affascinante)


Berta dal Grampiè, (aveva un piede più grande dell’altro) figlia di Re Filippo d’Ungheria, fu chiesta in sposa, tramite gli ambasciatori, da Pipino Re di Francia. La giovane nobile sapendo della poca avvenenza del Re Pipino in un primo momento rifiutò, ma poi dovette acconsentire. Fu organizzato il matrimonio; partiti per Parigi per la celebrazione e giunti nei pressi della città francese, Berta decise di farsi sostituire dalla sua segretaria, e quasi sosia, Elisetta di Magonza che la stava accompagnando a Parigi. Elisetta fu convinta di stare al gioco da Grifone e Spinardo di Magonza e fu così che sposò Pipino. I due, Grifone e Spinardo, promisero a Berta di ricondurla in patria, ma tradirono questa promessa. Diedero incarico agli accompagnatori di portarla in un bosco e ucciderla. I tirapiedi di Grifone e Spinardo non si attennero alle indicazioni e presi dal senso di pietà invece di ucciderla la legarono nuda a un albero in piena foresta.
I lamenti della nobile furono uditi da un cacciatore di Re Pipino, Lamberto; il quale si portò nei pressi dove la giovane era legata, la sciolse e la condusse a casa sua. La moglie la rifocillò e le diede dei vestiti umili, quelli che possedeva. Berta visse in quella famiglia per più di cinque anni, fu considerata alla stregua delle altre figlie; dedicò il suo tempo ai lavori umili tra cui il filare la lana
Tutto durò fino al giorno in cui, Pipino, durante una battuta di caccia si trovò nei paraggi della casa di Lamberto si accorse delle bellezze di Berta. S’invaghi di lei e fece di tutto per possederla. Il tutto avvenne su di un carro. La leggenda narra che in quell’occasione fu concepito Carlo (da carro) poi Carlo Magno. Tornato a corte ripudiò Elisetta e sposò finalmente Berta.

mercoledì 12 giugno 2019



La pecora nera 

[Italo Calvino] 

C’era un paese dove erano tutti ladri. La notte ogni abitante usciva, con i grimaldelli e la lanterna, e andava a scassinare la casa di un vicino. Rincasava all’alba, carico, e trovava la casa svaligiata. 
E così tutti vivevano in concordia e senza danno, poiché l’uno rubava all’altro, e questo ad un altro ancora e così via, finché non si arrivava all’ultimo che rubava al primo. 
Il commercio in quel paese si praticava solo sotto forma di imbroglio sia da parte di chi vendeva sia da parte di chi comprava. Il governo era un’associazione a delinquere ai danni dei sudditi, e i sudditi da parte loro badavano solo a frodare il governo. Così la vita proseguiva senza inciampi e non c’erano né ricchi né poveri. 
Ora, non si sa come, accadde che nel paese si venisse a trovare un uomo onesto. La notte, invece di uscirsene con il sacco e la lanterna, stava in casa a fumare e a leggere romanzi. Venivano i ladri, vedevano la luce accesa e non salivano. 
Questo fatto durò per un poco: poi bisognò fargli comprendere che se lui avesse voluto vivere senza far niente, non sarebbe stata una buona ragione per non lasciar fare agli altri. Ogni notte che lui passava in casa, era una famiglia che non mangiava all’indomani. 
Di fronte a queste ragioni l’uomo onesto non poteva opporsi. Prese anche lui ad uscire la sera per tornare all’alba, ma a rubare non ci andava. Onesto era, non c’era nulla da fare. 
Andava fino al ponte e stava a vedere passare l’acqua sotto. Tornava a casa e la trovava svaligiata. In meno di una settimana l’uomo onesto si trovò senza un soldo, senza di che mangiare, con la casa vuota. 
Ma fin qui poco male, perché era colpa sua; il guaio era che da questo suo modo di fare ne nasceva tutto uno scombinamento. Perché lui si faceva rubare tutto e intanto non rubava a nessuno; così c’era sempre qualcuno che rincasando all’alba trovava la casa intatta: la casa che avrebbe dovuto svaligiare lui. 
Fatto sta che dopo un poco quelli che non venivano derubati si trovarono ad essere più̀ ricchi degli altri e a non voler più rubare. 
E, d’altronde, quelli che venivano per rubare in casa dell’uomo onesto la trovavano sempre vuota: così diventavano poveri. Intanto, quelli diventati ricchi presero l’abitudine anche loro di andare la notte sul ponte, a vedere l’acqua che passava sotto. 
Questo aumentò lo scompiglio, perché ci furono molti altri che diventarono poveri. Ora, i ricchi videro che ad andare la notte sul ponte, dopo un po’ sarebbero diventati poveri. E pensarono: “Paghiamo dei poveri che vadano a rubare per conto nostro”.
Si fecero i contratti, furono stabiliti i salari, le percentuali: naturalmente sempre ladri erano, e cercavano di ingannarsi gli uni con gli altri. Ma, come succede, i ricchi diventavano sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri. 
C’erano dei ricchi così ricchi da non aver più bisogno di rubare e di far rubare per continuare ad essere ricchi. Però se avessero smesso di rubare sarebbero diventati poveri perché i poveri li derubavano. 
Allora pagarono i più poveri dei poveri per difendere la roba loro dagli altri poveri, e così istituirono la polizia, e costruirono le carceri. 
In tal modo, già pochi anni dopo l’avvenimento dell’uomo onesto, non si parlava più di rubare o di essere derubati ma solo di ricchi o di poveri, eppure erano sempre tutti ladri. 
Di onesti c’era stato solo quel tale, ed era morto subito, di fame.