giovedì 28 novembre 2019

Gallicianò



E' un piccolo azzardo, ho voluto dare una mia interpretazione a una poesia scritta e musicata dal poeta Ciccio Epifanio; la reputo un inno alla calabresità, alle radici magno greche della nostra terra. 
Un grazie a Ciccio per questi lampi di cultura, un grazie per la costante ricerca che conduce e per quanto ancora vorrà fare. 
Ad Maiora!


Gallicianò

S’apria la vaji avanti di lu mari
e l’acqua si calava hjumi hjumi
giustu la barca mia pe navigari, 
jizai la vila e mi jettai a li schiumi.

La vallata si apre agli occhi del poeta, è il letto della fiumara Amendolea  ai piedi di Gallicianò, è una giornata di pioggia e poeta immagina di farsi largo tra le acque navigando con la sua barca.  
La barca è la metafora usata dal poeta per dire della sua volontà di navigare e conoscere, e ne issa le vele alimentate dal vento (bramosia) dello scoprire e si tuffa tra le schiume della storia.
Ora la terra cca sapi parrari
di comu quantu e tutti li premuri
mi dissi 'nda nu sulu ragiunari,
l’opiri, li poeti e i sonaturi.

Giunge sul posto con l’aspettativa che la terra che sta per scoprire gli sappia raccontare (ragiunari) di lei stessa e che con premura gli dia lumi sulle opere dei poeti e artisti del mondo grecanico.
All’artu non si va sulu a volari
si cercunu penzeri e posaturi,
all’artu si posau Gallicianò
casi di petra burgu di pasturi.

Gallicianò si trova in una sommità di montagna; e il paese non è nato lì per caso (pensa l’autore) e sostiene che in alto non si va solo per volare fisicamente, ma immagina l’elevazione dello spirito per avvicinarsi sempre più al pensiero dei grandi filosofi.
A chist’artizza si dill’atru latu,
fora di testa e supa 'nta lu celu;
sutta li pedi 'ndai nu nivulatu
e 'ntornu ti cumbogghji cu nu velu.

Alla stessa altezza si è nell’altra dimensione, quella spirituale, e immagina un’estasi mentale che lo pone sopra le nuvole oltre il visibile ammantato di un velo di immaterialità.
Non sai poviru tia ch’è natru statu,
non si cchjù tu ma la to primavera
di nuju senzu ormai tu si patruni 
e a genti ti saluta “calimera”.

Non sai di trovarti in un’altra condizione, non sei più tu, stai vivendo una rinascita, (primavera) non sei più padrone dei sensi terreni e si parla un’altra lingua 
Simu a la Grecia antica di Platuni
e jeu cu l’unghji scavu chista terra,
pecchì pozzu trovari li ragiuni
e a chistu pettu meu spicciau la guerra.

“Approda” a Gallicianò, terra della Grecia Antica di Platone e con le unghie scava quella terra (ricerca, studia) per andare a scoprire sempre più le sue radici e solo facendo così può trovare le risposte, scavando nella storia, per trovare (scoppiau) la pace dell’anima (a chistu pettu)  .
E vinnimu a principiu di stagiuni
quandu a ricina voli fatta vinu
ddu vecchji poetati Calabrisi
comi li magi jiru a lu Bombinu.

Sono arrivati in due a Gallicianò nel periodo di vendemmia: Ciccio Epifanio e Totò Frisina, due vecchi poeti calabresi, l’autore usa la metafora dei Re Magi che andarono in adorazione da Gesù Bambino.
Cu veni mu si leji a lu passatu
trova la carni e li sustanzi puri,
li senzi, lu sangu e lu righjatu,
li signi lu linguaggiu e li figuri.
Chi si reca in quei luoghi per scoprire (leji) il passato trova certamente il vero senso dell’umano e l’esistenza pura (sustanza), trova il senso, la linfa e il respiro attraverso i segni, le immagini e la parola.
Di chista lingua mia cu tanti pisi
cercu radici vecchji e fundi assai,
paroli comu fa “scatasciarrisi”,
crastu, capuni, babbu e rrizzai.
Cerca le radici di della sua lingua per lui molto importante (pisi) visto che adora poetare in dialetto e ne trova riscontro in parecchi termini della lingua calabra.
Fummu a la porta fermi a scaliari,
comu chju chi vidi la chimera
e vinni i botta cu 'na vesta janca
nu Grecu Calabrisi d’i Nucera.
I due poeti si fermano davanti a una porta e sbirciano (scaliari) dentro con la meraviglia di colui che vede una chimera, quando all’improvviso è comparso un Greco-Calabrese (Mimmo Nocera, animatore e cicerone di quella piccola comunità grecanica)
E comu lu maestru non si stanca
di fari a li scolari la leziuni
girau cu nui li chjesi e lu triatu
e seppi mu ndi juma la passiuni.
Mimmo Nocera si è posto come un maestro per spiegare agli ospiti ogni angolo di quella comunità, dalla chiesa ortodossa al piccolo teatro greco, presenti a Gallicianò, e con i suoi racconti e con le sue spiegazioni ha alimentato la passione dei due amici.
Finiu la festa e u tempu fu fermatu
quandu lu cori ndi voliva ancora
“State Kalà” la Greca ha salutatu
E pe cu si ndi va” Stinga linora”
Finita l’escursione è finita la festa quando nei due poeti c’era ancora sete di sapere; e vivono la sensazione di sospensione della realtà come se il tempo si fosse fermato al tempo dei filosofi greci. E quando stanno per abbandonare quella condizione di estasi e altra dimensione dello spirito una signora anziana greca ha augurato a loro un buon rientro in lingua greca : andate in pace.

mercoledì 6 novembre 2019

Amarcord






I pomeriggi, di quell’autunno avanzato, tornavano noiosi; le sensazioni di entusiasmo si spendevano al mattino tra scuola e uscita. Poi la sosta al bar e le ultime note di una canzone da ascoltare fino alla partenza dell’ultimo pullman che portava via gli studenti di fuori paese.
“Ricominciare non è possibile ormai fra poco tu te ne andrai…” cantavano i Romans e c’era chi si ostinava a gettonare “Domani è un altro giorno”; la voce nasale di Ornella Vanoni, speranzosa nel testo, ma triste nella melodia, avvolgeva i pensieri di chi legava la sua inquietudine al colpo di clacson che avvisava la partenza del pullman.
Già, domani sarebbe stato un altro giorno, con i ritmi di sempre; tempi scanditi dalla campanella. E Ciccillo era preciso, non sgarrava di un minuto, la faceva vibrare seguendo il canovaccio di una scuola a volte ligia solo negli orari. Per tanti quel suono giungeva molto presto al mattino e troppo tardi all’ultima ora. Sembrava si vivesse per i ritagli di tempo che concedeva la campanella, e sui ritardi dei professori. Attimi rubati alle ore di lezione e vissuti con la voglia di ridurre le distanze con la ragazza che si era impadronita dei pensieri. Approcci banali e timidi, con la presunzione di fare apparire tutto come per caso. E così tutti i giorni.

All’altezza della Posta Ciccio si accese una sigaretta, giunse al bar ancora semideserto, si sedette in una delle due sedie accanto al juke box e continuò a fumare al riparo dal freddo e dagli occhi dei suoi. Dalla tasca dell’eskimo, abbottonato fino al collo, sbucavano fuori dei fogli arrotolati; il suo sguardo smarrito, e attento solo agli anelli di fumo che salivano dalla sua sigaretta, non camuffava il turbinio dei suoi pensieri. Davanti a lui, attaccata al banco della cassa del bar, una locandina, stilizzata a caricatura, mostrava la sagoma di una donna, dalle spalle fino al fondo schiena come se fosse un contrabasso, tra le braccia e lo sguardo godurioso di un uomo con il naso che spuntava più lungo dell’archetto.
“Domenica al Cinema Italia primo spettacolo ore 3,00” e ancora” Vietato ai minori di 14 anni”
Una didascalia a pennarello, usato da una mano incerta, annunciava luogo e orario dello spettacolo:
-IL MERLO MASCHIO- con Lando Buzzanca e Laura Antonelli.
 Non abbisognava precisare che “ore 3” era riferito al pomeriggio; i prevedibili spettatori, anche inferiore ai quattordici anni, sapevano già tutto e avrebbero atteso l’attimo in cui l’alto parlante puntato sulla piazza avrebbe diffuso le prime gracchiate del film che stava per iniziare.

Per Oppido era una prima visione, uno di quei film da proiettare solo di domenica; film di grido e di cassetta, anche se arrivava dopo tre anni dalla prima. 
Il vicolo che costeggiava il bar, dalla parte laterale opposta al corso, portava all’ingresso del Cinema Italia; all’angolo, sul muro del bar, Vicenzo aveva piazzato un altoparlante e sotto una bacheca in legno, con uno sportello che incorniciava una rete metallica, dove provvedeva ad attaccare i cartelloni dei film in programma. Solo di mercoledì, o quando trovava qualche pellicola particolare, si limitava a fissare un pezzo di carta con su scritto “mercoledì Film”, poi bastava il passaparola.
Messaggio criptico, ma nello stesso tempo chiaro, diretto ai giovanotti smaniosi di scoprire le immagini e le trame, quasi sempre scontate, di film in cui la facevano da padrone “caldose” fantasie e gole profonde. Erano linfa viva per le immaginazioni degli avventori ancora in erba e spesso rendevano molto agitate le visioni. Nuova frontiera di inconfessabili scoperte, in un paese dove tutto si mostrava compassato e senza sussulti; mondi nuovi che accendevano e alimentavano i pruriti giovanili, e Vicenzo conosceva bene le voglie dei giovani spettatori.

*

Peppe non tardò ad arrivare, si sedette accanto a Ciccio, e mentre la canzone “Un’altra volta chiudi la porta” consegnava l’ultimo ritornello alle orecchie disattente dei presenti, Peppe tirò fuori un foglio e si rivolse a Ciccio.
- Il giornale dovrà essere strutturato in questa maniera: una pagina la dovremmo dedicare al Liceo, notizie e curiosità sull’Istituto; dovremo ascoltare un po’ gli umori degli studenti e riportare sommariamente le considerazioni più interessanti. 
La seconda pagina la dedicherei alla politica locale; la terza pagina ai moti di Reggio di qualche anno fa, rimarcando l’impegno della sinistra contro la speculazione politica montata ad arte dalla destra dei “boia chi molla”. Poi vorrei che venisse dedicata una pagina al colpo di stato in Cile e chiuderei le ultime due pagine con delle lettere di partigiani condannati a morte, qualche poesia di Calamandrei e qualche pagina tratta dai “Quaderni dal carcere” di Gramsci - finì. 
Nino e Mario giunti da poco al bar si erano uniti alla combriccola, ascoltarono le parole di Peppe, e mentre lui esponeva il suo progetto si sentirono smarriti; erano tutti argomenti di cui sapevano poco o nulla. Avevano sentito parlare di “boia chi molla” e del colpo di stato di Pinochet avevano udito qualcosa alla radio o in televisione. Di Calamandrei e di Gramsci buio pesto. Temi improponibili per chi si svegliava al mattino solo col pensiero alle tre MS sfuse e alla compagna di liceo che aveva smosso e acceso nuovi fremiti e sussulti. 

venerdì 18 ottobre 2019

Mastru Peppinu



Mastru Peppinu

( quandu moriu so mamma)



ATTO UNICO

Interno:
casa con in un lato un tavolo adibito a banco da lavoro, una porta al centro, una laterale e una finestra. Sulla parete un quadro di San Rocco col cane.
Si apre la scena con Mastro Peppino poggiato con il gomito sul tavolo da lavoro e guarda con tono di sfida l’immagine di San Rocco, la signora Cuncetta, mentre attraversa la stanza, nota l’atteggiamento di Mastro Peppino.

Cuncetta       -Peppi non zanniari chi santi!... Cacchi jornu ti castiganu…
  (tra sé rivolta al pubblico) …voli l’affittu i santu Roccu e du cani…oh      
   signuri meu! (rivolto a M.P.) ma d’undi ti veninu!

M.Peppino -  Non dicu u paganu l'affittu, ( pausa)
                      ma almenu u cani u bbaja se trasi carcunu!

Ritorna al banco e continua a nchimari.  Bussano alla porta.

M.Peppino     - Avanti!

Ciccantoni     Eh salutamu! Mastru Peppinu, chi si dici? 
                      ( entra, si siede su  una delle sedie)

M.Peppinu     - Bongiornu…facendiamu…

Ciccantoni    - Giustu…giustu….nda stu paisi i vagabondi e di farfalloni,
    nui simu comu i muschi janchi!

Mastro Peppino alza lo sguardo stranito e sorpreso poiché Ciccantoni non ha mai lavorato in vita sua.

Ciccantoni     - e poi…chi comuni la merda!!!…si vindiru puru i cipressi
du campusantu!!! Al nord nun succedunu sti cosi, là si che 
è un’altra vita…mah…chi sind’avi a fari. È cosi……eh…
mastru Peppinu vui non jistivu mai al nord?

M.P.            - no…Ciccantoni…ndaiju sulu una zia a Ventimiglia…e u
 sordatu u fici a Pizzolu, vui non jistivu mai a Pizzolu?

 (sapendo dell’ignoranza di Ciccantoni, lo burla inventandosi un luogo inesistente)


( il seguito quando si metterà in scena)

martedì 1 ottobre 2019

Du ..Carminu..

(Immagine concessami gentilmente dall'amico Vincenzo Vaticano)






Quella sera mio padre pensò di portarmi alla festa della Madonna del Carmine; ero attratto dalle feste, dalle fere, e lo sapeva.
Lui avrebbe fatto a meno di quella camminata, dopo una dura giornata di zappa, ma pensò di propormelo come se fosse una ricompensa.
Partimmo dalla foresta col sole che se ne stava calando, conosceva le ‘ccurciature tantoché in un’ora fummo a Varapodi.
La processione stava per finire, la vara con la Madonna era sul punto di fare rientro in chiesa; facemmo un giro tra i ferari, tra mustazzoli nucilla e ciciri.
Il caldo torrido di quel giorno di luglio si era aggrappato ai muri e dava l’impressione che volesse essere anch’esso della festa.
Là in piazza, in una panchina dietro al palco, proprio vicino alla scaletta che portava su, vedemmo nostro zio Nino, fratello di mio nonno; ci avvicinammo e mi sedetti accanto a lui. Rimasi lì, in attesa dei cantanti.
Un’aria surreale avvolgeva Varapodi, tanti devoti della Madonna del Carmine, tanta gente e un vocìo costante faceva da sottofondo alle prove dei musicisti.
Poi una calca di persone verso di noi, ragazzi che accorrevano e le guardie comunali che schiudevano un corridoio per i protagonisti della serata. Loro, i cantanti, erano a un passo da me e vestiti di bianco, e man mano che salivano andavano a prendere posto: batteria, tastiera e chitarre.
Gli applausi di attesa si alzarono, le grida di tripudio fecero intendere che l’attesa era stata tanta; l’ultimo di loro, il cantante, prima di salire sostò un attimo accanto a me. Capelli corvini alla moda, una barba giovane e nera gli contornava la mandibola, mi guardò dall’alto verso il basso, attraverso gli occhiali spessi come culacchi di bottiglia, mi sorrise e mi chiese:
- Non ti diverti?
Annuì e risposi al sorriso, vergognoso con la timidezza di un decenne. Forse il caldo e l’aria stanca avevano reso serio il mio volto e gli avevano dato l’impressione di una mia indifferenza.
La serata scorse via festante, io la vissi con l’animo di chi aveva avuto il privilegio di parlare col cantante. Lui cantò, e quando intonò “Come potete giudicar” la piazza sembrò non contenere le grida di gioia e i battimani.
Poi la festa finì, le note si fermarono; la botta scura che anticipava i fuochi aveva scosso anche i paesi vicini, e le successive rosate degli spari ci colsero che eravamo già sulla stradache costeggiava il campo sportivo, di ritorno verso la foresta. Una notte di lavoro ci attendeva, il nostro turno iniziava alle due. Tre ore ancora per bivarere e poi a dormire nel pagliariccio.
Seguii attento, dall’altra parte della rasula, le votate di mastra di mio padre; e quando qualche nuvolata copriva la poca luna mi abbassavo per controllare con le mani se l’acqua avesse inzuppato a modo la terra e tutte le rangare.
Il sonno addentava le palpebre, la stanchezza mi faceva desiderare oltre misura la lettiera, ma mi sentivo appagato; infondo se quella sera non fossi stato lì mi sarei perso il garbo, il sorriso e la voce di Augusto Daolio.




mercoledì 18 settembre 2019




Un po' di storia...paesana




Dopo animate polemiche, con punte accese fino a sfiorare l’offesa, la Preside cedette.
- La libertà di discutere dei problemi che riguardano la scuola, e non solo, è una condizione primaria che rivendicheremo sempre! - Urlò Peppi, per farsi sentire da tutti gli studenti, vecchi e nuovi. 
La Preside non si girò, fece finta di non aver udito quelle parole e si rintanò in presidenza. 
- È un diritto di tutti trovare spazio e luogo per parlare di noi! Delle nostre cose e dei nostri problemi! - non si fermava, Peppi, era un fiume in piena e si rivolgeva ai ragazzi che intanto avevano fatto frotta intorno a lui.
- Noi combatteremo, sempre, i “fasci” ovunque si annidino! Già con la legge sul Divorzio vi abbiamo dato una bella ‘ddòngata, altre vittorie arriveranno. I proletari non cederanno il passo e faranno la storia di questo dannato paese.
Non era certo ciò che si aspettava Nino dopo i primi giorni di Liceo: una baraonda scatenata da uno studente più grande, un’arringa urlata, e parole di cui ignorava il senso e la sostanza.
“Cavolo” - pensò Nino - “questo è pazzo”.
Di Peppe sapeva poco, ma, in quei primi giorni di liceo, si era accorto che con la Preside bisognava stare attenti; tantoché ogni volta che arrivava in istituto scattava un fuggi fuggi generale, da parte degli studenti, per non farsi trovare in giro e rischiare qualche cazziata.

A Nino la predica di Peppe non gli arrivava nuova; un po’ di mesi prima lo aveva visto in piazza tra un nugolo di ragazzi, durante la campagna elettorale per il divorzio, impegnato a spiegare le ragioni del SI e quelle del No. 
- Il SI significa no!  E il NO significa sì! - si sgolava e imprecava contro il bigottismo dei clericali e della demo-borghesia-cristiana. Quelle affermazioni così sicure, ai giovani astanti, apparivano indecifrabili; come se sotto sotto nascondessero il trucco, e che Peppe si era messo in testa di disvelare le celate congiure contro il popolo, da secoli prono ai voleri dei clerical-borghesi, così affermava.
- Si sono mobilitati tutti! - inveiva convinto; in quei momenti i suoi piccoli occhi neri divenivano spiritati e accentuavano i tratti ossuti del suo volto. Un baffetto incolto lo rendeva più maturo, agli occhi degli altri, dell’età che aveva. Mirava negli occhi l’interlocutore del momento, cercando di far passare le ragioni con tutte le sue forze, si prodigava con anima e cuore a spiegare a quella ciurma di liceali gli effetti del quesito referendario. Tutti discorsi che direttamente non interessavano a nessuno, l’età del voto era lontana, ma quella ginnastica mentale su questioni che toccavano princìpi di civiltà
- così diceva Peppe - cominciava a incuriosire qualcuno.
A Nino tornarono in mente le giornate di quella campagna elettorale; anime mobilitate per la causa, lotte di manifesti, cagnara di auto equipaggiate con altoparlanti e voci che a ogni spicunera declamavano gli slogan, raggruppamenti alle prese con dispute accalorati e non mancarono le risse.
- Donne ! Uomini ! Mogli! Mariti! Per il bene della vostra famiglia il 12 e 13 Maggio votate Sì !
E per contro:
- Cittadini! per una Italia più civile il 12 e 13 maggio votate No all’abrogazione della legge Fortuna-Baslini.
Slogan triti e ritriti, per molti incomprensibili. Erano gli stessi che Sandro, giovane patentato e fresco di auto, una Fiat 126, ripeteva imprestando la sua voce, sia per l’uno sia per l’altro fronte, in cambio di un pieno di benzina; se ne fotteva del senso e del contenuto di ciò che andava a vandiari, a lui interessava il carburante, per lucrarci sopra.
Ci metteva del suo in quei giri per le strade di Dèrica e per rompere la ripetitività ogni tanto si lanciava in slogan di cugghjunella:
- Donne ! cambiate lavaggio con la varechina di Peppe Formaggio! 
Qualcuno si affacciava pensando fosse il camion della varechina, ma si imbatteva nel ghigno strafottente del figlio del medico.
Ma la sua vittima preferita, in quei giorni convulsi di campagna elettorale, era a gnura Cuncia; quando lo sfacciato arrivava in piazza, e a distanza di sicurezza dall’emporio gestito dalla Cuncia  e da Gabreli, suo marito, produceva il summa della sua goliardia:
- CUNCIA! Per il bene dei tuoi figli! e di quel tambarusu di Gabreli il 12 e 13 Maggio vota Sì! 
Non dava tempo alla signora Cuncia di uscire fuori che già accelerava per evitare qualche bottiglia lanciata a scapizzuni, ma non poteva evitare di sentirsi dire:
- Vai e guarda a tambara i ju cortnutu i to patri! 

martedì 16 luglio 2019

Il cornuto e il fascismo ( aneddoto di Andrea Camilleri)











Estratto da un articolo di Marco Filloni (da Minima&Moralia)


Raul Radice, critico teatrale al Corriere della Sera, un gentiluomo milanese, vecchio stampo, aveva iniziato la sua carriera da giornalista durante il ventennio come redattore di un quotidiano fascista, L’Impero. La testata era diretta da due figure importanti del regime, Mario Carli e Emilio Settimelli. Mentre a ricoprire il ruolo di amministratore di tutte le pubblicazioni fasciste era Arnaldo Mussolini, fratello di Benito.
Ebbene, ricorda Camilleri, un giorno Arnaldo Mussolini chiese a Radice di accompagnarlo dal Duce per la relazione mensile sull’andamento delle pubblicazioni. Così entrano nello studio di Benito Mussolini, a Piazza Venezia, col giovanissimo Radice nel ruolo di portaborse e col cuore che gli batteva forte. Il Duce era chino sulla sua scrivania a scrivere, fitto fitto. Saluto romano di rito, poi il fratello si mise accanto a Benito, aprì la valigetta con tutti i documenti e glieli porse. Ma questi, prima ancora di scorgerli, esordì: «Arnaldo, da qualche tempo L’Impero mi sembra che abbia perduto mordente. Ma che succede?».
E il fratello rispose: «Sai, è una cosa molto delicata e pure sgradevole…»
«E cioè?»
«Beh, sai, la moglie di uno dei due va a letto con l’altro. E il marito l’ha scoperto. Quindi i due non si parlano più, e così sta andando tutto un po’ a rotoli».
Arnaldo non pronunciò nessun nome, non disse quale dei due era stato tradito.
Così Mussolini si chinò, pensoso, e dopo un lungo silenzio alzò lo sguardo, guardò dritto negli occhi il fratello e disse: 
«licenzia il cornuto!».
Ecco, in una sola frase, quella che per Andrea Camilleri è la vera essenza del fascismo.

martedì 9 luglio 2019

Franceschiell', ultimo Re




....se tuorn' !


L’orgoglio e il senso di appartenenza, spesso, non è materia commestibile per noi del Sud; la storia ci insegna che in passato alti personaggi furono attratti dal richiamo di chi aveva tutti gli interessi ad aggregare il Regno delle Due Sicilie al “nuovo” che avanzava. Corsi e ricorsi. Questi siamo.


Liborio Romano fu prefetto di Polizia di Napoli nominato dal re Francesco II di Borbone nel 1860, e nello stesso anno seguì la nomina di Ministro degli Interni.
Il quel momento storico tanto particolare, mentre Garibaldi risaliva la penisola con il suo esercito, Romano cominciò a pensare ai “cazzicielli” suoi e avviò contatti sia con Garibaldi che con Cavour per far sì che il passaggio dai Borbone ai Savoia avvenisse in maniera serena, e un pò comoda per lui.  Fu lo stesso Romano a convincere re Francesco II a lasciare Napoli, e a ritirarsi nel castello di Gaeta, senza porre resistenza ai Piemontesi per evitare battaglie e spargimento di sangue. Fu lo stesso Romano ad andare ad accogliere Garibaldi senza porre resistenza, anzi con festeggiamenti organizzati in luogo. Era il 7 settembre 1860; e il giorno prima re Francesco II, prima di partire per Gaeta, radunò per il saluto tutti i Ministri e funzionari e con la sua solita aria da strafottente disse a Don Liborio:
 - Don Libò, guardat’ o cuollo”, (bada alla tua testa) che se tuorn..! 
E in quel frangente volle ricordare il Ministro Michele Giacchi al quale aveva detto:

-  Voi sognate l’Italia e Vittorio Emanuele, ma non vi resteranno neanch’ ll’uocchie pe’ chiagnere.

mercoledì 26 giugno 2019

Un paese...





“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

(Cesare Pavese)


Non può essere
Dicono che morrai, paese mio,
malato di diaspora,
che all'ombra dei tuoi monti
solo morti resteranno
e alberi...
Io dico no!, non può essere
che questa terra senza nome resti,
che sia vano questo nascere questo soffrire questo vivere. 
che i figli lontani una madre non abbiano
cui guardare come meta dei loro sogni di zingari.

(Stelio Pandolfini) 


Non penso di essere irriverente nei confronti di nessuno se mi azzardo ad accostare un passo di Cesare Pavese a una poesia di Stelio Pandolfini. Entrambi gli autori si sono chiesti sul valore delle radici, il peso delle origini in ogni essere umano. 
Il primo, nel suo romanzo La luna e i falò, torna, col personaggio Anguilla, a cercare le sue origini e i colori della sua infanzia in compagnia dell’amico Nuto al quale lo legano tanti ricordi di un passato allegro e spensierato.
Pandolfini, invece, nella sua lirica Non può essere, non vuole immaginare la scomparsa delle radici, teme che "questa terra senza nome resti", (stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus?) e si rifiuta di credere che la diaspora non possa più pensare alla propria terra come meta e guardarla come madre di figli gitani. 


Stelio Pandolfini, nato a Santa Cristina D’Aspromonte nel 1926, è morto a Roma nel 2011.
 “Scrittore e Poeta di Calabria” cita il manifesto che ne annuncia la morte (F.te Rocco Liberti – Storicittà).
Cristinese di nascita e oppidese di adozione, tra le sue opere:
“La fiumara va così” ( Galzerano Editore) e “Il Sogno ( ogni uccello nel suo bosco) Rubettino Editore.
Il prof. Rocco Liberti ha dedicato Stelio Pandolfini una pagina importante sulla rivista “Storicittà”( Settembre 2011) dove con estrema cura traccia il profilo umano e lo spessore letterario dell’autore.

Ringrazio la nipote Ester Pandolfini per avermi donato la poesia 
“Non può essere”.

domenica 23 giugno 2019

Ssettati Totò ..!!





(Libera interpretazione di un fatto narrato da Don Ninì Polistena) 

Avere degli ideali, e vivere cercando di perseguirli poiché pensi che siano i più giusti e che possano essere il cemento per una società più civile e più giusta, credo sia un comune denominatore per tutte le coscienze.  Farsi portatori di istanze politiche è altresì cosa molto comune, connaturata nell’uomo e si manifesta a tutti i livelli: sia locali che nazionali.
Ebbene, dalla dinamica della contesa e della contrapposizione ideale, per lunghi anni, non fu scevro nemmeno il Circolo Operaio di Oppido (di cui mi onoro di essere socio non residente). Sarà perché Oppido è sempre stato un comune politicamente attivo dove le contrapposizioni politiche hanno dato vita ad accese battaglie tra diverse e opposte fazioni.
Il Circolo Operaio, frequentato negli anni dalla classe operaia, dagli artigiani e negli ultimi tempi anche dalla piccola borghesia, è stato spesso un luogo di contrapposizione di idee, di cordate e di fazioni nate col proposito di dare un direttivo per la gestione dello stesso. Infondo bisognava gestire le entrate: le bollette dei soci; e le uscite: salario del messo, canone simbolico per l’affitto dei locali, abbonamento televisivo, l’acquisto di due quotidiani e tutte le spese straordinarie che riguardavano arredi (sedie, tavolini e divani). 
Tutto filava liscio fino a pochi mesi prima delle elezioni del direttivo, in prossimità di questa scadenza cominciavano i movimenti per la composizione delle quadre da proporre come nuovo direttorio. Ogni potenziale candidato a Presidente portava cose nel pacchetto delle candidature il Segretario e il Cassiere. Questa funzione si rivelava di notevole importanza, poiché era colui che ogni fine mese doveva provvedere alla riscossione delle bollette; una presenza massiccia di morosi stava a indicare una scorretta amministrazione.
Ma la cosa che assumeva un certo peso politico era la capacità di trattare in termini economici le forniture delle bibite: perlopiù la birra.
Le sale erano adibite al gioco delle carte: Popolo, Calabrisella, Tresette, Briscola, Scopa e a volte qualche Ramino; ma durante domeniche e festivi si combinavano squadre di fuoriclasse per interminabili passatelle a Padrone e Sotto (a primera). Non vi erano limitazioni di sorta, ma il buon socio doveva essere: educato, non doveva bestemmiare, non doveva gridare e tenere comportamenti irriguardosi nei confronti di tutti, e non ultimo doveva pagare l’obolo in maniera regolare. Chi contravveniva ai regolamenti rischiava la sospensione (da parte dei probi viri) per un tempo congruo in rapporto a quanto aveva combinato.
Fu così che Totò, spinto da una voglia di cambiamento, decise di prendere parte attiva all’amministrazione e si candidò a Presidente, con Don Ninì candidato alla carica di Segretario. 
Il ticket era di quelli forti, nomi importanti, personaggi di rilievo dell’associazione; uomini probi, degni di cariche anche più importanti nella piccola comunità oppidese. 
La sfida venne lanciata all’amministrazione uscente; i cavalli di battaglia per la campagna elettorale furono i temi classici: riscossione corretta delle bollette, abbellimento della sede, cambio del panno della carambola. La campagna elettorale fu tosta, senza esclusione di colpi; i centotrenta votanti furono, in quei mesi, coccolati da tutti i candidati; da parte dei nuovi ogni occasione era buona per denigrare l’operato degli uscenti, così come gli uscenti non perdevano colpo per dire che i nuovi non avevano l’esperienza giusta per il governo del Circolo.
Venne il giorno delle elezioni; il seggio fu aperto alle 8 di mattina e per tutta la giornata, presidente e due scrutatori condussero con solerzia le operazioni di voto. 
Alle 20,00 il seggio venne chiuso e si registrò un afflusso 128 votanti, il 98,5 % degli aventi diritto.
Subito dopo la chiusura dell’urna il presidente di seggio predispose i tavoli per lo spoglio, furono chiamati i probi viri per prendere in maniera diretta allo di scrutinio.
A ogni scheda scrutinata un brusio riempiva la sala, la trepidazione saliva in entrambi gli schieramenti. Fu un testa a testa fino all’ultima scheda; e quando il presidente di seggio diede lettura dei risultati:

Votanti 128
Totò G. voti n° 67
Ciccio Z. voti n° 57
Schede bianche/nulle n° 4

<< Proclamo eletto Presidente Totò G. ! >> 
Urlò in maniera solenne il presidente di seggio. Un lungo applauso accompagnò la proclamazione e dalla sala gremita si levò un coro: << discorso ! discorso ! discorso!>>.
Era d’uso che il Presidente eletto, che prendeva da subito in mano le redini del Circolo, rivolgesse un saluto alla platea e pronunciasse per sommi capi quali sarebbero state le sue politiche e le azioni programmatiche.
Il triumvirato si portò dietro al banco della presidenza, Totò rimase in piedi, Don Ninì insieme al segretario si sedettero ai lati e Totò prese la parola:
<< Carissimi soci, innanzitutto vi ringrazio per la fiducia che avete riposto in me, saranno due anni di impegno e sarà mia premura cominciare a mettere ordine in molte cose>>.
La sala ammutolì. Don Ninì, che era seduto accanto, intuì che un discorso duro avrebbe sollevato dubbi anche in coloro che li avevano votati e in maniera discreta tiro la coda della giacca di Totò per fargli capire di essere breve senza toccare temi sensibili. Totò, immerso in una luce di potenza, continuò:
<< Proporrò al direttivo nel giro di qualche giorno di approvare il “divieto di fumo” in tutte le sale…>>. Non finì la frase che un brusio in sala aumentò al punto di interrompere il discorso, qualche voce in dissenso si alzò. Don Ninì aumentò i “tiramenti di giacca”, conosceva bene gli astanti e prevedeva le reazioni. 
Totò non volle sentire ragioni:
<< Proporrò che a padrone e sotto si potrà giocare solo di domenica e festivi e con tavoli non superiori a cinque giocatori…>>
A sto punto i rumori delle sedie, le voci e imprecazioni dei soci coprirono le parole, le bordate dei fischi arrivarono da ogni dove. Don Ninì si alzò e urlò nell’orecchio di Totò: 
<< Totò ssettati pe favuri! >>
Totò, imperterrito, continuò:
<< Per i morosi saranno presi provvedimenti in tempi rapidissimi con sospensioni che possono essere anche di mesi…>>.
La sala a questo punto ruppe ogni indugio e cominciò a imprecare contro i neo eletti.
Don Ninì non tenne più si alzò e senza indugiare:
<< Ssettati Totò ca ‘ndi  caccianu puru i soci!!>> . 
In effetti lo scenario che avevano davanti non faceva presagire nulla di buono col rischio, non solo di ammutinamento da parte dei soci, di trovarsi radiati anche dall’essere soci.
A riprova che le regole vanno bene solo se applicate a qualcuno a cui si possa guardare, mai su di noi.
A nu parmu du me…..

venerdì 21 giugno 2019

Bompisu!






-  Domattina, quando andrai a comprarti il giornale, passa dai contadini e compra dei pomodori e un po' di verdura- Mi disse mia moglie.
Eravamo arrivati da qualche giorno a Marina, e come tutti gli anni, oltre alla voglia di sano ozio sotto l’ombrellone a pochi metri dal nostro mare, sentivamo il bisogno di riappropriarci di alcuni sapori che solo pochi luoghi ti sanno ancora dare; sicché all’indomani inforcai la bicicletta e presi la strada per la piazzetta.  
Loro, i contadini, erano già lì; in ordine sparso, all’ombra degli alberi della piazza, sul marciapiede; cassette ordinate con ortaggi e frutta esposte a pochi metri l’uno dall’altro.
Sguardi discreti, quasi timidi; un alone di pudore congenito faceva da cornice alle mercanzie che offrivano.
Mi avvicinai al primo, in una cassetta spiccava il colore “meliss” dei pomodori a “loto”; in un’altra cassetta rividi “le cime di cucuzzara”. 
- Buongiorno, vorrei un chilo di pomodori e due mazzetti di cime.
-  I pomodori un euro al chilo, e le cime due mazzetti un euro.
Mi rispose l’uomo, dichiarandomi il prezzo senza che io l’avessi chiesto.
Prese un sacchetto di carta lo aprì e mi disse: 
-   Scegliete quelli che vi piacciono.
-   No, fate voi- Risposi
Le sue mani cominciarono a selezionare i pomodori più belli. Riempì il sacchetto, lo poso sulla bilancia (da cucina) e la lancetta segnò il peso.
-   Un chilo e due, bompisu.
Prese un sacchetto più grande e ci infilò dentro le cime, e mentre me lo stava per dare lo ritirò e infilo un terzo mazzo di cime.
-   Bompisu, anche con le cime.
-   Quanto pago ? chiesi.
-   Due euro - rispose.
-  Come due euro? I pomodori sono più di un chilo e sono tre mazzetti di cime - ribadì.
-   Il “bompisu” ve lo mangiate alla mia salute -. Sorrise con gli occhi.
Tirai fuori cinque euro e glieli diedi. Lui li prese con una mano, mentre con l’altra si mise a frugare le sue tasche per cercare gli spiccioli di resto. 
-  Me li date la prossima volta, siete il primo cliente e non ho resto -.
-  No, facciamo così: vi lascio il resto e la prossima volta che vengo scontiamo. E poi come fate a fidarvi di me? È la prima volta che mi vedete -. Gli dissi sorridendo, tra il serio e il faceto.
-       Non siete di “malanimo”, si legge in fronte -. Mi rispose.
Sorridemmo entrambi. Misi i sacchetti nel cesto della bici e me ne andai lasciandolo con l’aria incredula e i cinque euro in mano.
Passarono dei giorni, quando una mattina, dopo aver bevuto il caffè al bar e mentre stavo per entrare in edicola per comprare il giornale senti bussare sulla spalla, mi girai e…
-   Buongiorno, questi sono i suoi tre euro di resto. 
-  Ma no, non voglio il resto, mi darà altri ortaggi la prossima volta. Non state a pensare ai tre euro, anzi venite con me al bar che vi offro il caffè-. Gli dissi.
- Non bevo caffè, vi ringrazio. Allora vi aspetto per quando verrete a comprare i pomodori-. 
Ci salutammo con una stretta di mano, una tra le più belle strette di mano della mia vita, e pensai che per quegli occhi sorridenti e per quell’innata onestà non ci sarà mai un “prezzo a pagare”.