Il tempo della pota
era passato, u favuzzu,
già alto tra i filari delle vigne, era pronto per essere zappato. I
guardiani curavano che tutti i
coloni seguissero la procedura pattuita con i padroni. Gli accordi erano
chiari. Ogni anno i coloni oltre al verderame e allo zolfo, dovevano seminare
il favuzzu al tempo convenuto, zapparlo al piede della vite per darne sostanza quando
sarebbe andata in frutto. Era così l’accordo di mezzadria: metà del mosto
prodotto andava al colono l’altra metà al padrone.
Alcuni tenevano in
piedi la formula del cinque-a-li dui, ossia: spese per il verderame, zolfo e favuzzu a carico del padrone e il mosto, prodotto, sarebbe stato ripartito cinque/settimi
al padrone e due/settimi al colono. I lavori manuali di zappa, pota, innesti e dubra davano come ricompensa, al colono, meno di un/terzo del prodotto.
Era così anche a Mazzanova, tenuta di vigneti ed uliveto dei Grillo; famiglia nobile e facoltosa di
Oppido. Altri vigneti come quelli di: Barbàra del Cav.
Zappia, Sanzo dei Terranova
di Taurianova, Pirara dei De Zerbi
arricchivano il circondario di mosti e lavoro,
ante e vino novello.
Tutti i giorni
Porcari, guardiano dei Grillo a Mazzanova, controllava le varie ante
che puntualmente il
mattino si presentavano ai vari tagghji
delle partite di vigna, per riprendere il lavoro lasciato la sera prima. Ogni colono impegnava una sua anta e doveva
ultimare i lavori di zappatura prima che i germogli delle viti divenissero
adulti.
Tutti i giorni u Signurinu si recava
alla tenuta. Partiva da Oppido col biroccio, dopo una sobria colazione nelle cucine del palazzo, arrivava al podere parato con stivali di cuoio al ginocchio, pantaloni
alla zuava, gilet di fustagno, cappello panama e nerbu
di bue perennemente in
mano.
Si ammantava di piglio padronale e girava per le varie partite di vigna controllando
che gli uomini andassero bene di zappa, che stessero attenti ai germogli e che
il favuzzu fosse sotterrato al piede della vite con la cura necessaria.
Di tanto in tanto si
fermava a chiedere o a suggerire qualcosa a qualche zappatore. Era un modo per
far pesare la sua presenza. Smanioso di tacitare la sua coscienza di non
lavoratore e per dare un senso, anche minimo, a una vita comoda frutto delle
rendite dei possedimenti.
Di aspetto imponente,
sui quarant’anni, scapolo. Era nota a tutti la sua proverbiale affezione alla
tavola e divorava con delicatezza i succulenti manicaretti preparati da Onna Marantonia.
Il Casino, a Mazzanova, era la dimora estiva e non solo; da primavera a settembre inoltrato, i Grillo, vi
trascorrevano quasi tutte le giornate feriali. La residenza campagnola era sita al centro del podere, a circa tre chilometri dal centro
abitato e si raggiungeva dalla provinciale che da Oppido va verso la
Ferrandina.
Due imponenti cippi, su cui poggiavano rabbiose
sculture di due leoni, vigilavano l’accesso allo stradone, che portava al cuore del podere, costeggiato da
colonne simmetriche, simboli di sfarzo e agiatezza, alternate dalle verdi
fronde di due reste di cerasare majatiche e petrujariche.
Accanto al Casino una dipendenza ospitava la servitù e una casupola era adibita al ricovero per i cani da caccia,
pratica cui si dedicava, con stupore dei coloni, anche la nobile signora
Grillo.
Un fattore si
occupava dell’amministrazione del fondo. Uno stalliere aveva il compito di
accudire ai cavalli, passare di striglia, portarli al pascolo in primavera e in
estate e dare biada e fieno nei periodi invernali.
Due donne erano
adibite alla gestione della casa.
Onna Marantonia, si occupava
della cucina, cuoca provetta, conosceva ben bene i gusti dei padroni. Figlia di
N.N., era stata presa a servizio da ragazzina e aveva scalato la gerarchia
della servitù, fino a rivelarsi cuoca preferita anche dal Signurino.
Serva devota e riconoscente per coloro che le avevano dato la
possibilità di vivere in una famiglia. Forse l’unico cruccio che si portava
dietro era quello di aver detto no a un giovane forestiero che aveva chiesto di
sposarla.
Non le pesava più di tanto
il diniego al venditore di brocche di terracotta, era stato spontaneo negarsi
per non abbandonare padroni.
Ormai sessantenne
era stata la balia del Signurinu e della Signora, nei confronti
dei quali nutriva un affetto esagerato. Durante i periodi di permanenza a
Mazzanova cucinava ciò che di meglio dava la campagna: verdure, piselli, fave e
altro, frutto delle colture dei coloni.
Non faceva difetto
la cacciagione, ci pensava il Signurinu. Marbizzi, beccacce e fagiani non mancavano mai.
Le galline davano
uova fresche dal rosso fuoco e quando si presentava u spilu,
faceva torcere il collo a un gallo
per un grasso bollito o ripieno al forno.
Rita, invece, si
occupava prevalentemente della casa. Originaria di Taurianova, era stata presa a
servizio su segnalazione della famiglia Alessio.
Nel periodo
primaverile la presenza del Signurino diveniva quotidiana, la zappatura delle
vigne dava impegno.
Dopo aver vagabondato
tra i filari, a mezzogiorno, appena uditi i dodici rintocchi, lontani e chiari,
dell’orologio di Tresilico, si presentava al Casino,
seguendo il rituale del menzjornista.
Poneva le gambe sotto il tavolo si apprestava a vivere l’ora di maggiore impegno e, a onor del vero, lo assolveva con assoluta agilità.
Onna Marantonia, puntuale come sempre nel preparare, curava ogni particolare: dal primo, al
secondo, alla frutta fresca, caffè e a volte anche il dolce. Il pranzo durava
minimo due ore. Si concedeva con calma u
Signurinu.
Trangugiava, tutto,
con appetito; non doveva e non poteva tralasciare nessun sapore, il piatto
doveva rimanere con scarpetta fatta, per la gioia di Onna Marantonia che a cori chinu
era felice di vedere il suo Signurinu cibarsi con particolare gusto.
A fine pranzo
annusava un sigaro Toscano ne catturava il profumo, lo portava alla bocca, lo
accendeva e, con la mimica di chi era in totale appagamento, gustava tutte le
sostanziose tirate.
Con la corposità delle
boccate e la cadenza regolare dava proprio l’idea di essere: pieno, sazio,
felice e in estasi per il sigaro.
Questa era la scena
tutti i giorni, subito dopo il pranzo. Si parava sull’uscio del Casino e mentre
sorbiva i sapori del sigaro, osservava gli zappatori che, da almeno un’ora,
erano già all’anta.
Gli stessi, tra una zappata e l’altra, guardando verso l’uscio del Casino, potevano
ammirare lo spettacolo in onore della sazietà.
Loro avevano già
mangiato il loro, scarno, fjancu
di pani con, spesso, una sarda salata e di contorno pepe piccante fritto
annegato in tanto olio in una camella. Un quarto di vino, per dare a dare sostanza al
pasto e per fare carburare il pomeriggio di lavoro.
Si era già in aprile,
le ante procedevano spedite nella
zappatura, il verde del favuzzu specchiava i raggi del sole, la terra ancora
umida per le piogge di marzo si
presentava al punto giusto per essere lavorata.
Gli zappatori, tutti con
rudimentali calosce, fatte di pezzi di stoffa resistente, legate al polpaccio
per preservare l’unico paio di scarpe, avevano l’ordine di zappare a menza –scugna.
Metodo faticoso che
garantiva un ricambio della terra alle radici e consentiva un facile
sotterramento del favuzzo nei gambitti
ai piedi delle viti. Il processo naturale, della biodegradabilità del
favuzzo, avrebbe fatto il resto per trasformarlo in fertilizzante naturale.
Peppineju u Stemmusu era un assiduo delle ante. Lavoratore
efficiente e preciso, tra i più richiesti quando si trattava di formare un’anta
a jornata. Abile a
zappare la vigna, il suo tagghju era sempre una spanna avanti gli altri; di corporatura esile, viso magro e
solcato da rughe, chioma nera alla muscagna. Dal fisico s’intuiva che il
lavoro da lui prodotto era frutto dai nervi del suo corpo. Chiamato col
vezzeggiativo Peppineju proprio
per la sua magrezza, Stemmusu
poiché tossiva spesso, colpa di una bronchite cronica e per
il fumo, unico vizio che si concedeva.
Fumava tabacco
trinciato, scarto della lavorazione delle sigarette. Prima di andare in anta ne
rollava alcune, le metteva in tasca e durante il lavoro le fumava senza
staccarle dalle labbra e senza interrompere i colpi di zappa.
Ne fumava una subito
dopo il pranzo di mezzogiorno. Il suo desiderio era di poter fumare con la
soddisfazione ammirata nel volto del Signurinu
quando lo vedeva davanti all’uscio del Casino. Voleva emularlo, era la sua
aspirazione.
Ci provava tutti i
giorni. Subito dopo il pranzo si sedeva all’ombra da ficara bifara,
tirava fuori il tabacco lo distribuiva con cura sulla cartina, lo pigiava per
compattare la sigaretta, accendeva e tirava a pieni polmoni.
La concentrazione, la
mimica, le boccate, per quanto potessero dare il piacere del fumo, non donavano
quella gioia, il gaudio e quel senso di appagamento che si leggeva sul viso del
Signurinu.
Questo desiderio lo stava assillando, era diventato una ragione di
vita. Voleva rubare il segreto che rendeva felice e soave il volto del
Signorino.
-È colpa del
tabacco- Pensava.
Si era convinto che
il trinciato, essendo il tabacco dei poveri, non fosse dotato di quei poteri
che immaginava avesse il Toscano fumato dal padrone.
Aveva,perciò, deciso
di cambiare: niente più tabacco trinciato, con gli stessi soldi avrebbe
comprato un sigaro Toscano, gli sarebbe bastato per soli due giorni, ma in
compenso gli avrebbe dato il vero piacere del fumo.
Una sera di
ritorno dell’anta, prima di rientrare a casa passò dal tabacchino di Don
Micheli, sul corso; aveva in tasca gli spiccioli necessari per comprare un
sigaro. Così fece. Arrivò a casa convinto in cuor suo di aver risolto il problema,
il giorno dopo avrebbe sicuramente vissuto la sospirata estasi.
Mangiò, con la solita fame da lupo, un piatto di zuhe e fasolu, bevve mezzolitro di vino, rollò la solita sigaretta di trinciato,
la fumò e andò a coricarsi col pensiero che l’indomani sarebbe stato un giorno
diverso e migliore.
Il mattino arrivò
presto, era abituato a svegliarsi da solo, il gallo avrebbe cantato più tardi;
lui anticipava sempre l’alba, così come i suoi compagni di lavoro, i primi
raggi del sole li avrebbero visti che erano già all’anta.
Loro si ritrovavano
tutte le mattine alle quattro in piazzetta, per poi incamminarsi a piedi fino a
Mazzanova, pochi minuti per prepararsi e via al tagghiju: a matinata faci a jornata. Si diceva.
Quel giorno si
avviò con presupposti incoraggianti, il sigaro in tasca dava a Peppineju la giusta carica, il pranzo di mezzogiorno l’avrebbe consumato con speciale attenzione, subito
dopo, il sigaro gli avrebbe garantito la fumata tanto sospirata.
L’orologio di
Tresilico rintoccò il mezzogiorno, i raggi del sole erano perpendicolari e taglienti, i
volti sudati e stanchi degli zappatori tradivano una buona fame, pochi attimi
ancora e si sarebbero trovati sotto la ficara al fresco, ognuno con la sua truscia
e il suo pezzo di pane. Peppineju aveva l’asso nella
manica, avrebbe sbalordito tutti e qualcuno l’avrebbe pure preso in giro
vedendolo col sigaro in bocca. Non gli importava nulla, il rischio dello sfottò
non pregiudicava il suo intento. Mangiarono con la solita cadenza; il vino, nel
fiasco di cinque litri era di tutti, ne attingevano a giro bevendo nello stesso
bicchiere ricavato da una buccia di arancia di caddara.
Peppineju, mangiò
con voluttà il fjancu di pane, colante di olio, ripieno di peperoncini fritti con patate; raccolse le sue cose,
fece i nodi ai quattro pizzi del sarbettu, ricompose la truscia e la mise da parte.
Tirò fuori dalla
tasca il sigaro lo poggiò su uno zumpo di livara, aprì il coltello a runchetta
e con precisione chirurgica
lo tagliò in due.
I suoi compagni,
increduli, seguirono l’operazione. Era un evento vedere un sigaro tra le labbra
di Peppineju; spesso quando finiva il suo tabacco, chiedeva una scotulata di sacchetta
ai suoi amici.
Accese il mezzo
sigaro e tirò con decisione, il corposo fumo riempì i polmoni di quel fisico esile; il non essere
abituato, provocò in Peppinejiu dei colpi di tosse, subito accompagnate dalle
risate di scherno dei suoi compagni.
Dissero in coro: “Cu dassa a vecchia pa nova sapi chjiu chi dassa ma non sapi
chiju chi trova”. Lui non si arrese, continuò a fumare, certo che da lì a poco
avrebbe vissuto gli attimi d’incanto tanto desiderati. Non successe nulla. La
tosse quel giorno fu più insidiosa del solito, una sottile delusione pervase
Peppinejiu, il sospirato sigaro non aveva prodotto l’effetto sperato.
Pensò fosse la
scarsa dimestichezza. Era abituato a sigarette rollate con trinciato o in
emergenza a qualche, scotulata i sacchetta. Probabilmente la bontà del sigaro aveva prodotto uno shock
nei bronchi non abituati a ricevere tanta grazia. Decise di non mollare, doveva
abituare i suoi bronchi e i polmoni al fumo di qualità del Toscano, alla fine
quel piacere sarebbe stato suo e avrebbe disteso le rughe che segnavano le sue
ancora giovani guance.
Passò qualche
giorno, Peppineju ripeté il rito. Nulla, ebbe solo tosse e delusione. Si
arrovellava il capo, voleva capire il
perché quel sigaro Toscano non dava a lui le sensazioni che regalava al
Signurinu.
Un giorno, mentre
erano all’anta, arrivò Porcari, chiese a due di loro di staccare per qualche
ora dal taghjiu, c’era un lavoretto
da fare nella cantina. Uscirono, col permesso del colono, Peppineju e Pascali Capizza, seguirono Porcari e giunsero nella cantina del
Casino.
Il mese di aprile
si prestava a smammare
il vino dalla botte, le giornate di chiaro, scevre da scirocco erano
ideali per travasare il vino nelle damigiane o per imbottigliarlo. Peppineju e
Pascali erano stati incaricati di trasportare le damigiane e le bottiglie, già
piene, nella dispensa. Onna Marantonia aveva predisposto tutto, quella mattina aveva
travasato il vino dalla botte, ma per il lavoro pesante di trasporto aveva
bisogno di braccia da uomo, e poi aveva l’incombenza di ultimare il pranzo per
il suo Signurinu.
Ordinò a Peppineju
di portare in cucina una damigiana di cinque litri. Peppinejiu la seguì.
Si mosse con grande soggezione, la cucina del
Casino gli apparve immensa, più grande di tutta la sua casa. I fornelli della
cucina a muro erano tutti impegnati, il vapore saliva dalle pentole che erano
messe a cuocere.
Il profumo delle
vivande in preparazione catturò le narici di Peppineju, la sua ingenua
curiosità lo portò ad adocchiare intorno; era la prima volta che vedeva una
vera cucina in piena attività. Si sentiva miserrimo e piccolo, a casa sua, la sera, sua moglie Catuzza, al
massimo attivava il solito stagnato per cucinare un unico piatto.
Dopo minuti di silenzio prese coraggio.
– N’davi ‘mbitati u signurinu avoji?
– Chiese.
– No –
rispose Onna Marantonia.
I suoi occhi
tradirono sorpresa. Tante pietanze facevano intendere una cospicua presenza di
convitati.
– E chistu chi jie?
– chiese Peppinejiu indicando una teglia contenente
qualcosa somigliante a un pollo.
– Nu faggianuzzu
– rispose lei.
– Sì.. –
rintuzzò.
– Tuttu pe iju?
– riprese Peppineju, spinto dalla curiosità.
– Sì! –
quasi scocciata.
– E chisti chi sunnu? – chiese ancora, buttando l’occhio sulla tavola.
– Gnocchi,… sunnu gnocchi
–
Aveva sentito
parlare qualche volta degli gnocchi, ma non ne conosceva neanche la forma. Per
Peppineju era un viaggio in un mondo sconosciuto e come un bambino ne era
attratto.
– Si mangia puru i gnocchi u Signurinu?
– riprese con le domande.
– Sì…certu… nci piaciunu assai !
–
Nel suo giro
cognitivo in quel paradiso degli odori, non passò inosservato un pezzo di vuccularu salatu. Onna Marantonia espose che il Signurinu gradiva
esclusivamente il vuccularu salato e non la pancetta, questa, era poco saporosa e poi il vuccularu si
accompagnava bene col favi
fresco.
Questa essenziale e
importante distinzione mandò Peppineju in confusione, avvertì il principio di
crampi allo stomaco, e quasi disgusto da tanta abbondanza di cibi. Fu troppo per
i suoi occhi e per il suo naso. Lo stomaco si diede agli spasmi come un mantice
e una spontanea acquolina lo portò a nghiuttiri ‘nsiccu.
Mise in fila
quanto visto: gnocchi al sugo, fagiano al forno con contorno di patate, vuccularu e favi, un cesto di frutta, notato sul tavolo, e volle…. sapere un ultimo
particolare:
– Ma dopo tuttu stu beni i Diu si pigghjia puru u cafè u Signurinu?– chiese con perentorietà Peppineju.
– Sì… u cafè fattu ca napulitana; non ci
piaci l’orzu: o Signurinu, nci veni
l’acitu
– puntuale ed esauriente Onna Marantonia.
Lui non conosceva
cosa fosse l’acidità provocata dall’orzo. Sapeva quelle dei peperoni bruscienti.
– E dopo si fuma u sicarru?
– incalzò lui.
– Sì …si fuma u sicarru… ma javanti..all’aria frisca
– completò lei.
– Accazzu! Ora capisciu pecchì ogni jornu sbruffia u Signurinu! –
Aveva finalmente
scoperto l’arcano. Era tutto quel cibo a dare il tono gradevole alle sue
fumate, la sazietà che traspariva dallo sguardo, era il frutto di pranzi
completi ed esagerati. In uno solo vi erano tutte le calorie che Peppinejiu
acquisiva in un mese con i fjanchi i pani e il frugale
companatico che sua moglie riusciva a preparare con fatica.
Se ne tornò,
sconsolato, all’anta, ma nello stesso tempo sollevato dal pensiero che lo aveva
tormentato. Era ormai chiaro, il sigaro era la minuscola appendice che seguiva
i pranzi esagerati del Signurinu e non la fonte del piacere che esibiva tutti i
giorni.
Tornò al vecchio e
amico tabacco trinciato, alle scotulati i sacchetta. Cercò di riappropriarsi di quei piccoli sapori e di
quei miseri piaceri che, anche se tali, condivano la sua umile esistenza.