mercoledì 29 marzo 2017

Parafrasando...Pablo




Ero troppo giovane quando De Gregori pubblicò l’album Rimmel di cui la canzone “Pablo” fa parte. In un primo momento l’ascolto delle stesse canzoni ha portato, me come tanti, ad apprezzare la musicalità e la melodia, ma nello stesso tempo ha acceso la curiosità di scoprire il significato recondito di questo enigmatico testo. Ho provato a cogliere tra le righe un significato, forse è ciò che leggo io, ma infondo di fronte a un'opera ognuno di noi è stimolato in modo singolare dalle proprie sensibilità.






Pablo ( De Gregori)

Mio padre seppellito un anno fa,
nessuno più a coltivare la vite.
Verderame sulle sue poche unghie
e troppi figli da cullare.
E il treno io l'ho preso e ho fatto bene.
Spago sulla mia valigia non ce n'era,
solo un po’ d'amore la teneva insieme,
solo un po’ di rancore la teneva insieme.

E’ un’immagine di una famiglia povera che si reggeva sulle braccia e il lavoro di un padre, ormai morto.
La valigia di cartone, simbolo dell’emigrazione classica, disegna il secondo scenario in cui si vede il figlio costretto a emigrare. Un andare via portandosi dietro, nella valigia, il legame che lo tiene ancorato alla famiglia.


Il collega spagnolo non sente, non vede,
ma parla del suo gallo da battaglia
e la latteria diventa terra.
Prima parlava strano ed io non lo capivo,
però il pane con lui lo dividevo
e il padrone non sembrava poi cattivo.


Il nuovo mondo gli fa conoscere Pablo.
Chi potrebbe essere Pablo se non una persona che cerca di coinvolgerlo e portarlo a condividere la stessa lotta per una causa socialista. Poco capisce del nuovo linguaggio e la sua “ingenua” indole lo porta ad apprezzare quello che il padrone gli concede.

Hanno pagato Pablo, Pablo è vivo!

 Pablo col tempo vende i suoi ideali, ma gli stessi restano vivi.


Con le mani io posso fare castelli,
costruire autostrade, parlare con Pablo,
lui conosce le donne e tradisce la moglie.
Con le donne e il vino e la Svizzera verde.
E se un giorno è caduto, è caduto per caso
pensando al suo gallo o alla moglie ingrassata
come da foto.

La vita continua, lui si è integrato e si sente nella condizione di essere autonomo e costruire il futuro, con Pablo c’è comprensione.
Pablo si è lasciato andare alle lusinghe del benessere, cadendo nelle tentazioni, allontanandosi dai suoi affetti che ormai vede con occhi diversi


Prima parlava strano ma io non lo capivo,
però il fumo con lui lo dividevo
e il padrone non sembrava poi cattivo.

Ormai con Pablo c’è sintonia, ci si divide anche il fumo e il padrone ai suoi occhi non appare più cattivo

Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo!

Con questo ritornello torna in mente una frase famosa di Che Guevara:
“Sparami, ucciderai un uomo”

Ma gli ideali avranno sempre la forza per vivere.

domenica 19 marzo 2017

U sicarru i Peppineju[1]









       Il tempo della pota era passato, u favuzzu[2], già alto tra i filari delle vigne, era pronto per essere zappato. I guardiani curavano che tutti i coloni seguissero la procedura pattuita con i padroni. Gli accordi erano chiari. Ogni anno i coloni oltre al verderame e allo zolfo, dovevano seminare il favuzzu al tempo convenuto, zapparlo al piede della vite per darne sostanza quando sarebbe andata in frutto. Era così l’accordo di mezzadria: metà del mosto prodotto andava al colono l’altra metà al padrone.
        Alcuni tenevano in piedi la formula del cinque-a-li dui[3], ossia: spese per il verderame, zolfo e favuzzu a carico del padrone e il mosto, prodotto, sarebbe stato ripartito cinque/settimi al padrone e due/settimi al colono. I lavori manuali di zappa, pota, innesti e dubra[4] davano come ricompensa, al colono, meno di un/terzo del prodotto.
        Era così anche a Mazzanova[5], tenuta di vigneti ed uliveto dei Grillo; famiglia nobile e facoltosa di Oppido. Altri vigneti come quelli di: Barbàra del Cav. Zappia, Sanzo dei Terranova di Taurianova, Pirara dei De Zerbi arricchivano il circondario di mosti e lavoro,  ante e vino novello.
       Tutti i giorni Porcari, guardiano dei Grillo a Mazzanova, controllava le varie ante[6] che puntualmente il mattino si presentavano ai vari tagghji[7] delle partite[8] di vigna, per riprendere il lavoro lasciato la sera prima.  Ogni colono impegnava una sua anta e doveva ultimare i lavori di zappatura prima che i germogli delle viti divenissero adulti.
       Tutti i giorni u Signurinu si recava alla tenuta. Partiva da Oppido col biroccio[9], dopo una sobria colazione nelle cucine del palazzo, arrivava al podere parato con stivali di cuoio al ginocchio, pantaloni alla zuava, gilet di fustagno, cappello panama e nerbu[10] di bue perennemente in mano.
        Si ammantava di piglio padronale e girava per le varie partite di vigna controllando che gli uomini andassero bene di zappa, che stessero attenti ai germogli e che il favuzzu fosse sotterrato al piede della vite con la cura necessaria.
       Di tanto in tanto si fermava a chiedere o a suggerire qualcosa a qualche zappatore. Era un modo per far pesare la sua presenza. Smanioso di tacitare la sua coscienza di non lavoratore e per dare un senso, anche minimo, a una vita comoda frutto delle rendite dei possedimenti.
       Di aspetto imponente, sui quarant’anni, scapolo. Era nota a tutti la sua proverbiale affezione alla tavola e divorava con delicatezza i succulenti manicaretti preparati da Onna Marantonia.
       Il Casino, a Mazzanova, era la dimora estiva e non solo; da primavera a settembre inoltrato, i Grillo, vi trascorrevano quasi tutte le giornate feriali. La residenza campagnola era sita al centro del podere, a circa tre chilometri dal centro abitato e si raggiungeva dalla provinciale che da Oppido va verso la Ferrandina.
        Due imponenti cippi, su cui poggiavano rabbiose sculture di due leoni, vigilavano l’accesso allo stradone, che portava al cuore del podere, costeggiato da colonne simmetriche, simboli di sfarzo e agiatezza, alternate dalle verdi fronde di due reste di  cerasare majatiche e petrujariche[11].
        Accanto al Casino una dipendenza ospitava la servitù e una casupola era adibita al ricovero per i cani da caccia, pratica cui si dedicava, con stupore dei coloni, anche la nobile signora Grillo.
        Un fattore si occupava dell’amministrazione del fondo. Uno stalliere aveva il compito di accudire ai cavalli, passare di striglia, portarli al pascolo in primavera e in estate e dare biada e fieno nei periodi invernali.
        Due donne erano adibite alla gestione della casa.
        Onna Marantonia, si occupava della cucina, cuoca provetta, conosceva ben bene i gusti dei padroni. Figlia di N.N., era stata presa a servizio da ragazzina e aveva scalato la gerarchia della servitù, fino a rivelarsi cuoca preferita anche dal Signurino.
       Serva devota e riconoscente per coloro che le avevano dato la possibilità di vivere in una famiglia. Forse l’unico cruccio che si portava dietro era quello di aver detto no a un giovane forestiero che aveva chiesto di sposarla.
      Non le pesava più di tanto il diniego al venditore di brocche di terracotta, era stato spontaneo negarsi per non abbandonare padroni.
        Ormai sessantenne era stata la balia del Signurinu e della Signora, nei confronti dei quali nutriva un affetto esagerato. Durante i periodi di permanenza a Mazzanova cucinava ciò che di meglio dava la campagna: verdure, piselli, fave e altro, frutto delle colture dei coloni.
        Non faceva difetto la cacciagione, ci pensava il Signurinu. Marbizzi[12], beccacce e fagiani non mancavano mai.
       Le galline davano uova fresche dal rosso fuoco e quando si presentava u spilu[13], faceva torcere il collo a un gallo per un grasso bollito o ripieno al forno.
       Rita, invece, si occupava prevalentemente della casa. Originaria di Taurianova, era stata presa a servizio su segnalazione della famiglia Alessio.
       Nel periodo primaverile la presenza del Signurino diveniva quotidiana, la zappatura delle vigne dava impegno.
       Dopo aver vagabondato tra i filari, a mezzogiorno, appena uditi i dodici rintocchi, lontani e chiari, dell’orologio di Tresilico, si presentava al Casino, seguendo il rituale del menzjornista[14]. Poneva le gambe sotto il tavolo si apprestava a vivere l’ora di maggiore impegno e, a onor del  vero, lo assolveva con assoluta agilità.
       Onna Marantonia, puntuale come sempre nel preparare, curava ogni particolare: dal primo, al secondo, alla frutta fresca, caffè e a volte anche il dolce. Il pranzo durava minimo due ore. Si concedeva con calma u Signurinu.
      Trangugiava, tutto, con appetito; non doveva e non poteva tralasciare nessun sapore, il piatto doveva rimanere con scarpetta fatta, per la gioia di Onna Marantonia che a cori chinu[15] era felice di vedere il suo Signurinu cibarsi con particolare gusto.
        A fine pranzo annusava un sigaro Toscano ne catturava il profumo, lo portava alla bocca, lo accendeva e, con la mimica di chi era in totale appagamento, gustava tutte le sostanziose tirate.
       Con la corposità delle boccate e la cadenza regolare dava proprio l’idea di essere: pieno, sazio, felice e in estasi per il sigaro.
          Questa era la scena tutti i giorni, subito dopo il pranzo. Si parava sull’uscio del Casino e mentre sorbiva i sapori del sigaro, osservava gli zappatori che, da almeno un’ora, erano già all’anta.
         Gli stessi, tra una zappata e l’altra,  guardando verso l’uscio del Casino, potevano ammirare lo spettacolo in onore della sazietà.
         Loro avevano già mangiato il loro, scarno, fjancu[16] di pani con, spesso, una sarda salata e di contorno pepe piccante fritto annegato in tanto olio in una camella[17]. Un quarto di vino, per dare a dare sostanza al pasto  e per fare carburare  il pomeriggio di lavoro.
       Si era già in aprile, le ante procedevano spedite nella zappatura, il verde del favuzzu specchiava i raggi del sole, la terra ancora umida per le piogge di marzo  si presentava al punto giusto per essere lavorata.
       Gli zappatori, tutti con rudimentali calosce, fatte di pezzi di stoffa resistente, legate al polpaccio per preservare l’unico paio di scarpe, avevano l’ordine di zappare a menza scugna[18].
         Metodo faticoso che garantiva un ricambio della terra alle radici e consentiva un facile sotterramento del favuzzo nei gambitti[19] ai piedi delle viti. Il processo naturale, della biodegradabilità del favuzzo, avrebbe fatto il resto per trasformarlo in fertilizzante naturale.
         Peppineju u Stemmusu era un assiduo delle ante. Lavoratore efficiente e preciso, tra i più richiesti quando si trattava di formare un’anta a jornata. Abile a zappare la vigna, il suo tagghju era sempre una spanna avanti gli altri; di corporatura esile, viso magro e solcato da rughe, chioma nera alla muscagna. Dal fisico s’intuiva che il lavoro da lui prodotto era frutto dai nervi del suo corpo. Chiamato col vezzeggiativo Peppineju proprio per la sua magrezza, Stemmusu[20] poiché tossiva spesso, colpa di una bronchite cronica e per il fumo, unico vizio che si concedeva.
         Fumava tabacco trinciato, scarto della lavorazione delle sigarette. Prima di andare in anta ne rollava alcune, le metteva in tasca e durante il lavoro le fumava senza staccarle dalle labbra e senza interrompere i colpi di zappa.
        Ne fumava una subito dopo il pranzo di mezzogiorno. Il suo desiderio era di poter fumare con la soddisfazione ammirata nel volto del Signurinu quando lo vedeva davanti all’uscio del Casino. Voleva emularlo, era la sua aspirazione.
         Ci provava tutti i giorni. Subito dopo il pranzo si sedeva all’ombra da ficara bifara[21], tirava fuori il tabacco lo distribuiva con cura sulla cartina, lo pigiava per compattare la sigaretta, accendeva e tirava a pieni polmoni.
       La concentrazione, la mimica, le boccate, per quanto potessero dare il piacere del fumo, non donavano quella gioia, il gaudio e quel senso di appagamento che si leggeva sul viso del Signurinu.
Questo desiderio lo stava assillando, era diventato una ragione di vita. Voleva rubare il segreto che rendeva felice e soave il volto del Signorino.
         -È colpa del tabacco- Pensava.
        Si era convinto che il trinciato, essendo il tabacco dei poveri, non fosse dotato di quei poteri che immaginava avesse il Toscano fumato dal padrone.
         Aveva,perciò, deciso di cambiare: niente più tabacco trinciato, con gli stessi soldi avrebbe comprato un sigaro Toscano, gli sarebbe bastato per soli due giorni, ma in compenso gli avrebbe dato il vero piacere del fumo.
          Una sera di ritorno dell’anta, prima di rientrare a casa passò dal tabacchino di Don Micheli, sul corso; aveva in tasca gli spiccioli necessari per comprare un sigaro. Così fece. Arrivò a casa convinto in cuor suo di aver risolto il problema, il giorno dopo avrebbe sicuramente vissuto la sospirata estasi.
         Mangiò, con la solita fame da lupo, un piatto di zuhe e fasolu[22], bevve mezzolitro di vino, rollò la solita sigaretta di trinciato, la fumò e andò a coricarsi col pensiero che l’indomani sarebbe stato un giorno diverso e migliore.
          Il mattino arrivò presto, era abituato a svegliarsi da solo, il gallo avrebbe cantato più tardi; lui anticipava sempre l’alba, così come i suoi compagni di lavoro, i primi raggi del sole li avrebbero visti che erano già all’anta.
         Loro si ritrovavano tutte le mattine alle quattro in piazzetta, per poi incamminarsi a piedi fino a Mazzanova, pochi minuti per prepararsi e via al tagghiju: a matinata faci a jornata[23]. Si diceva.
          Quel giorno si avviò con presupposti incoraggianti, il sigaro in tasca dava a Peppineju la giusta carica, il pranzo di mezzogiorno l’avrebbe consumato con speciale attenzione, subito dopo, il sigaro gli avrebbe garantito la fumata tanto sospirata.
          L’orologio di Tresilico rintoccò il mezzogiorno, i raggi del sole erano perpendicolari e taglienti, i volti sudati e stanchi degli zappatori tradivano una buona fame, pochi attimi ancora e si sarebbero trovati sotto la ficara[24] al fresco, ognuno con la sua truscia[25] e il suo pezzo di pane. Peppineju aveva l’asso nella manica, avrebbe sbalordito tutti e qualcuno l’avrebbe pure preso in giro vedendolo col sigaro in bocca. Non gli importava nulla, il rischio dello sfottò non pregiudicava il suo intento. Mangiarono con la solita cadenza; il vino, nel fiasco di cinque litri era di tutti, ne attingevano a giro bevendo nello stesso bicchiere ricavato da una buccia di arancia di caddara[26].
          Peppineju, mangiò con voluttà il fjancu di pane, colante di olio, ripieno di peperoncini fritti con patate; raccolse le sue cose, fece i nodi ai quattro pizzi del sarbettu[27], ricompose la truscia e la mise da parte.
         Tirò fuori dalla tasca il sigaro lo poggiò su uno zumpo di livara[28], aprì il coltello a runchetta[29] e con precisione chirurgica lo tagliò in due.
           I suoi compagni, increduli, seguirono l’operazione. Era un evento vedere un sigaro tra le labbra di Peppineju; spesso quando finiva il suo tabacco, chiedeva una scotulata di sacchetta[30] ai suoi amici.
          Accese il mezzo sigaro e tirò con decisione, il corposo fumo riempì i polmoni di quel fisico esile; il non essere abituato, provocò in Peppinejiu dei colpi di tosse, subito accompagnate dalle risate di scherno dei suoi compagni.
           Dissero in coro: “Cu dassa a vecchia pa nova sapi chjiu chi dassa ma non sapi chiju chi trova”[31]. Lui non si arrese, continuò a fumare, certo che da lì a poco avrebbe vissuto gli attimi d’incanto tanto desiderati. Non successe nulla. La tosse quel giorno fu più insidiosa del solito, una sottile delusione pervase Peppinejiu, il sospirato sigaro non aveva prodotto l’effetto sperato.
            Pensò fosse la scarsa dimestichezza. Era abituato a sigarette rollate con trinciato o in emergenza a qualche, scotulata i sacchetta. Probabilmente la bontà del sigaro aveva prodotto uno shock nei bronchi non abituati a ricevere tanta grazia. Decise di non mollare, doveva abituare i suoi bronchi e i polmoni al fumo di qualità del Toscano, alla fine quel piacere sarebbe stato suo e avrebbe disteso le rughe che segnavano le sue ancora giovani guance.
           Passò qualche giorno, Peppineju ripeté il rito. Nulla, ebbe solo tosse e delusione. Si arrovellava il capo,  voleva capire il perché quel sigaro Toscano non dava a lui le sensazioni che regalava al Signurinu.
          Un giorno, mentre erano all’anta, arrivò Porcari, chiese a due di loro di staccare per qualche ora dal taghjiu, c’era un lavoretto da fare nella cantina. Uscirono, col permesso del colono, Peppineju e Pascali Capizza, seguirono Porcari e giunsero nella cantina del Casino.
          Il mese di aprile si prestava a smammare[32] il vino dalla botte, le giornate di chiaro, scevre da scirocco erano ideali per travasare il vino nelle damigiane o per imbottigliarlo. Peppineju e Pascali erano stati incaricati di trasportare le damigiane e le bottiglie, già piene, nella dispensa. Onna Marantonia aveva predisposto tutto, quella mattina aveva travasato il vino dalla botte, ma per il lavoro pesante di trasporto aveva bisogno di braccia da uomo, e poi aveva l’incombenza di ultimare il pranzo per il suo Signurinu.
        Ordinò a Peppineju di portare in cucina una damigiana di cinque litri. Peppinejiu la seguì.
        Si mosse con grande soggezione, la cucina del Casino gli apparve immensa, più grande di tutta la sua casa. I fornelli della cucina a muro erano tutti impegnati, il vapore saliva dalle pentole che erano messe a cuocere.
          Il profumo delle vivande in preparazione catturò le narici di Peppineju, la sua ingenua curiosità lo portò ad adocchiare intorno; era la prima volta che vedeva una vera cucina in piena attività. Si sentiva miserrimo e piccolo,  a casa sua, la sera, sua moglie Catuzza, al massimo attivava il solito stagnato per cucinare un unico piatto.
        Dopo minuti di silenzio prese coraggio.
        N’davi ‘mbitati u signurinu avoji?[33] – Chiese.
        No – rispose Onna Marantonia.
        I suoi occhi tradirono sorpresa. Tante pietanze facevano intendere una cospicua presenza di convitati.
        E chistu chi jie?[34] – chiese Peppinejiu indicando una teglia contenente qualcosa somigliante a un pollo.
        Nu faggianuzzu[35] – rispose lei.
        Po Signurinu ? [36]
        Sì.. – rintuzzò.
         Tuttu pe iju?[37] – riprese Peppineju, spinto dalla curiosità.
        ! – quasi scocciata.
        E chisti chi sunnu? [38]– chiese ancora, buttando l’occhio sulla tavola.
        Gnocchi,… sunnu gnocchi[39]
        Aveva sentito parlare qualche volta degli gnocchi, ma non ne conosceva neanche la forma. Per Peppineju era un viaggio in un mondo sconosciuto e come un bambino ne era attratto.
        Si mangia puru i gnocchi u Signurinu?[40] – riprese con le domande.
        Sì…certu… nci piaciunu assai ![41]
         Nel suo giro cognitivo in quel paradiso degli odori, non passò inosservato un pezzo di vuccularu salatu[42].  Onna Marantonia espose che il Signurinu gradiva esclusivamente il vuccularu salato e non la pancetta, questa, era poco saporosa e poi il vuccularu si accompagnava bene col favi[43] fresco.
         Questa essenziale e importante distinzione mandò Peppineju in confusione, avvertì il principio di crampi allo stomaco, e quasi disgusto da tanta abbondanza di cibi. Fu troppo per i suoi occhi e per il suo naso. Lo stomaco si diede agli spasmi come un mantice e una spontanea acquolina lo portò a nghiuttiri  nsiccu[44].
           Mise in fila quanto visto: gnocchi al sugo, fagiano al forno con contorno di patate, vuccularu e favi, un cesto di frutta, notato sul tavolo, e volle…. sapere un ultimo particolare:
         Ma dopo tuttu stu beni i Diu si pigghjia puru u cafè u Signurinu?[45]– chiese con perentorietà Peppineju.
         Sì… u cafè fattu ca napulitana; non ci piaci l’orzu: o Signurinu, nci veni l’acitu[46] – puntuale ed esauriente Onna Marantonia.
         Lui non conosceva cosa fosse l’acidità provocata dall’orzo. Sapeva quelle dei peperoni bruscienti[47].
         E dopo si fuma u sicarru?[48] – incalzò lui.
         …si fuma u sicarru… ma javanti..all’aria frisca[49] – completò lei.
         Accazzu! Ora capisciu pecchì ogni jornu sbruffia u Signurinu! [50]
         Aveva finalmente scoperto l’arcano. Era tutto quel cibo a dare il tono gradevole alle sue fumate, la sazietà che traspariva dallo sguardo, era il frutto di pranzi completi ed esagerati. In uno solo vi erano tutte le calorie che Peppinejiu acquisiva in un mese con i fjanchi i pani e il frugale companatico che sua moglie riusciva a preparare con fatica.
         Se ne tornò, sconsolato, all’anta, ma nello stesso tempo sollevato dal pensiero che lo aveva tormentato. Era ormai chiaro, il sigaro era la minuscola appendice che seguiva i pranzi esagerati del Signurinu e non la fonte del piacere che esibiva tutti i giorni.
        Tornò al vecchio e amico tabacco trinciato, alle scotulati i sacchetta. Cercò di riappropriarsi di quei piccoli sapori e di quei miseri piaceri che, anche se tali, condivano la sua umile esistenza.










[1] Il sigaro di Peppineju
[2] Fave tenero.
[3] Metodo di ripartizione del  mosto prodotto in settimi.
[4] Seconda zappatura nel corso dell’anno, prima della vendemmia
[5] Nome di contrada
[6] Gruppo di lavoranti
[7] Fronte del lavoro
[8] Quote di vigneto
[9] Carretto biruote trainato dal cavallo
[10] Frustino di nervo di bue
[11] Ciliegi in frutto a Maggio e duroni.
[12] Tordi
[13] La voglia
[14] Persona abituata a pranzare a mezzogiorno in punto.
[15] Cuore contento
[16] Quarto di pane
[17] Gavetta, recipiente per vivande.
[18] Zappatura a media profondità
[19] Scavo ai piedi delle viti.
[20] Di tosse persistente
[21] Qualità di fico
[22] Verdura selvatica e fagioli.
[23] Il lavoro mattutino è il più redditizio.
[24] Albero di fico
[25] Involto con le vivande del pranzo
[26] Arancio selvatico
[27] Tovagliolo
[28] Tronco di ulivo
[29] Coltello con lama ricurva
[30] Vuotatura delle tasche dai residui  di tabacco
[31] Chi lascia il vecchio per il nuovo sa ciò che lascia e non sa ciò che trova
[32]Travasare il vino dalla botte
[33] Il Signorino ha invitati?
[34] Questo cos’ è?
[35] Un fagiano
[36] Per il Signorino?
[37] Tutto per lui?
[38] E questi cosa sono?
[39] Gnocchi, sono gnocchi
[40] Mangia anche gli gnocchi il Signorino?
[41] Sì, certo gli piacciono molto
[42] Guanciale di maiale
[43] Fave
[44] Acquolina in bocca, deglutire a vuoto
[45] Ma dopo tutto questo ben di Dio  usa prendere il caffè?
[46] Sì, il caffè fatto con la napoletana, non gli piace l’orzo, gli procura acidità.
[47] Piccanti
[48] E poi fuma il sigaro?
[49] Sì, fuma il sigaro , ma fuori all’aria aperta
[50]  Ah ! Cazzo ora mi spiego il perché ogni giorno è gaudente il Signorino!