Oh patri ! ‘issi a mamma u veni a casa ca u nonnu
s’aggravau!- urlò Sarineju, entrando nella cantina dove Ciccu stava giocando a
patruni e sutta. Un’aria gravida di tanfi colmava ogni angolo di quella
bettola. Su quei tavoli spogli e nei bicchieri mezzi vuoti gli avvinazzati ci
lasciavano gli occhi.
Ciccu tracannò con un sol colpo di gargarozzo quel
vino di cui era patruni, si asciugò la bocca con la manica della giacca, si
alzò e, flemmoso, uscì.
Era l’ennesimo allarme che sua moglie lanciava.
Non appena Pascali, il padre di Ciccu, allettato,
emetteva un fischio e tre ronfi di seguito lei si allarmava:
- Trasiu ‘n gonia - pensava, e mandava subito
a chiamare il marito.
E lui era sempre lì. La cantina era la sua seconda
casa e anche più confortevole del basso, dove viveva con i suoi otto figli, la
moglie, padre e madre. Al pezzo di orto ci pensavano i vecchi, lui faceva
qualche mezza giornata come spaccalegna, ma solo di mattina, il pomeriggio si
caricava della bontà di quel vino che spuntava all’aceto e se lo trascinava
fino a sera.
Ciccu s’incamminò verso casa, Sarineju gli corse
dietro zumpando tra i fossi di acqua stagnante per evitare, così, di bagnarsi i
piedi ‘ncajati e scalzi. Quella mattina, le scarpe le aveva prese suo fratello
Rocco ed era andato a raccattare qualche litro di olive cadute dalle pendenze
che davano sulla mulattiera che portava a Santa Vennera. Con dieci lire
comprava un sigaro. Dare i soldi a sua mamma sarebbe stato inutile, tanto,
sempre languide zuhe con sparuti fagioli avrebbe preparato da mangiare, e a lui
come a tutti gli altri fratelli le zuhe gli uscivano dagli orecchi.
Famiglia ricca di sangue, ma povera 'n canna. Otto
figli sputati uno dietro l’altro.
- Diu 'i manda e a terra 'i crisci - diceva la mamma
e giustificava le ingravidate. Già, Dio li mandava, ma loro, lei e Ciccu, ci
mettevano la lena. Poi la terra dava loro solo lo spazio per camminare, a
scaza. Crescevano col sole, l’aria e poco altro.
La più cumandivoli era Pascalina, la prima degli otto.
Discipula i maistra e balia dei più piccoli. Aveva cucito, con una pezza di
tarpa, dei pantaloni per i suoi fratelli. Tutti di criscenza, con l’elastico
alla vita e con la spacca al cavallo, per i bisogni. Il bagno era arretu a
sipala. Bastava abbassarsi e il più era fatto.
Ciccu arrivò a casa, trovò il padre a letto di
agonia.
-Sarineju, vai e chiama i previti, dinci ca u nonnu
staci morendu- comandò, più per scrupolo che per altro.
Suo padre non poteva andarsene senza l’ultimo
sacramento. Per ben due volte il prete non aveva amministrato l’estrema
unzione:
- Non vedete che sta dormendo e ronfa di sonno, non
è agonia- e così, Don Sasà, se n’era tornato in canonica. Non voleva sprecare
l’olio santo.
- Ogni cosa ha il suo tempo – diceva
- E poi l’estrema unzione è per i cristiani infermi.
Non si amministra il sacramento a chi è in buona salute, anche se prossimo alla
morte -.
Ma Pascali era malato e quel giorno non si
svegliava. Il respiro affannato e cadenzato era diverso dal solito. Non si era
ridestato, dormiva dal giorno prima ed era rimasto immobile, affossato nel
materasso di coppe. Negli occhi semiaperti la pupilla si era nascosta sotto le
palpebre e dava un’immagine grave.
Don Sasà arrivò seguito dal chierichetto, si accostò
al capezzale e abbassò il capo per origliare i rantoli da vicino; ne fu certo:
stimò per Pascali le ultime due ore della sua angosciata esistenza. Fece
disporre una tovaglia bianca su un treppiedi in legno, in un piatto sei
batuffoli di cotone, mezzo limone e della mollica di pane. Accanto al tavolo un
vacile con acqua e un asciugamano. Il chierichetto lo aiutò a indossare la
cotta e la stola viola; tirò fuori, da un astuccio di seta dello stesso colore
della stola, il vasetto dell’olio santo, intinse il pollice e comincio a
segnare col simbolo della croce: le palpebre, il naso, il labbro inferiore, il
lobo delle orecchie, i palmi delle mani e i piedi. Ogni segno di croce
tracciato col pollice era accompagnato dalla formula:
-Per istam sanctam Unctionem, et suam piissimam
misericordiam, indulgeat tibi Dominus quidquid deliquisti-.
Don Sasà asciugò con i batuffoli di cotone i punti
toccati, si pulì le dita con la mollica e con il limone, butto tutto tra i
tizzoni del focolare anche la poca acqua del vacile.
Ora, Pascali, poteva serrare gli occhi e spegnere i
rantoli. Tutti i peccati commessi, con gli occhi, il naso, la bocca, le
orecchie con le mani con i piedi, furono così rimessi.
La sua vita era stata già un inferno, quali altri
peccati avrebbe dovuto riparare?
Tirò ancora un giorno e finì.
Raccolsero le sue poche robe, le posero sotto il
“lenzuolino” e imbottirono la bara. Ciccu, del padre, tenne una giacca e un
calzone. Voleva anche le scarpe ma non poteva mandarlo scalzo nell'aldilà: gli
sarebbe apparso in sogno maledicendolo per il resto della sua esistenza. Non
poteva nemmeno sostituirle con le sue, consumate e lerce: dentro la bara tutti
avrebbero visto i buchi nelle suole.
Gli vennero in mente i racconti degli incubi di
Gianni Spulicatroje, suo vecchio compagno di cantina, che aveva levato il dente
d'oro al padre appena morto e per lui erano cominciati i tormenti. Tutte le
notti il padre gli appariva in sogno intento a mordere nu jhiancu di pane e
poiché non riusciva a morsicare gli scaraventava ogni maledizione.
Pensò che fosse colpa del vino, carico di
bisolfito, che Onna Ciccia gli misurava nella solita cannata, se quelle visioni
tornavano puntuali. Provò a non bere vino per qualche giorno ma nulla: i sogni
angosciosi tornavano.
Poi anche Gianni se ne andò. Il medico gli aveva
detto rudemente della sua malattia: - hai l’acqua nda panza!
- Dottori vi sbagghjiati, non è possibili l’acqua
‘nda me panza! Jeu ‘mbippi sempri vinu! A mmenocchè ja ‘pputana i onna Ciccia
non llongau u vinu cu ll’acqua!
Aveva risposto cosi alla diagnosi del medico. La
cirrosi gli aveva chiuso i giorni, ma aveva fatto in tempo, con una
sceneggiata, ad accusare Onna Ciccia di mescere acqua col vino di Barbàra.
Sbarazzarono il basso e lo pararono a lutto, al
centro su due trispiti e due tavole: la bara. S’erano preoccupati di serrare,
con un fazzoletto, la mascella di Pascali. Sembrava riposasse in compagnia di
un forte mal di denti, ma gli erano rimaste solo le gengive.
Figli e nipoti erano lì, muti e spiritati. Una bocca
in meno da sfamare, un posto libero per dormire.
- C'a nonna mi curcu ijeu!- si era accaparrato
Sarineju pregustando il materasso del nonno.
Arrivò Don Sasà, stavolta con due chierichetti: uno
con la croce e l’altro con l’acquasanteri e, dentro, l’aspersorio.
-Requiem aeternam dona eis, Domine; et lux perpetua
luceat eis. Requiescat in pace. Amen-.
Si segnarono tutti in bisbiglio confuso. Don Sasà
usci.
Onna Genia fu lì. La sua sagoma nera reggeva il
braciere poggiato in testa, le sue mani dietro la nuca aprivano le braccia e
davano un’immagine statuaria. Lei era già al centro della strada e alla
spicunera che apriva alla via principale che portava in chiesa, scalza e
misteriosa. Anticipava l’ultimo tratto di cammino del povero Pascali, voleva
donare luce per fare attraversare agevolmente l’ultima gola di tenebre, e
legare la sua anima al fumo che si elevava per l’abbraccio col divino.
A Don Sasà non garbavano nè Onna Genia nè il suo
rito: un misto tra il sacro e il pagano. Diceva che il braciere era cosa di
saraceni e nulla aveva a che vedere con i riti cristiani e che, per giunta, era
un vecchio arnese per preghiere rivolte agli dei, dai greci e dai romani, ma
non poteva farci niente. Onna Genia partecipava senza essere invitata nè compensata.
Poteva mancare la banda, ma Onna Genia no. La sua assenza da un funerale poneva
dubbi timori e paure, spesso anche maldicenze.
L’aria bruna del vespero d’autunno aveva
accompagnato Pascali o' puntuni du Russu, lo stringi mano fu veloce e se ne tornarono
a casa. Anche Onna Genia se ne tornò e col braciere al fianco,
-Paci all’anima sua, finiu i patiri - dicevano
tutti.
Lui sì aveva davvero chiuso con i patimenti, ma
sapeva di lasciare sulla terra figli e nipoti in un mondo dove le sofferenze si
accavallavano.
Cummari Cuncetta finì di apparecchiare sulle tavole
poste sui trispiti, dove fino a qualche ora prima vi era la bara. Tovaglia da
tavola a quadri rossi e bianchi, le posate per l’occasione e già due fiasche
impagliate nascondevano il colore scuro del magliocco di Barbàra. Era l’ora
della consolazione. Dopo i giorni del lutto, gli addolorati riassaporavano i
cibi. Già, era così per chi abitualmente mangiava almeno un pasto al giorno, ma
per la famiglia di Ciccu ciò che si stava preparando era una mera novità.
In quella casa si mangiava quando si poteva e non
per mancanza di tempo. Mai si era vista una tavola imbandita, come quella che
si era parata ai loro occhi. Solo qualche festa ricordata o poco altro.
Sarineju si sedette accanto al padre; assaporò una
fetta di pane, per rompere la timidezza, mentre il vapore della minestrina al
brodo di pollo gli riempiva le sue narici.
-Patri, chi jè, m’a pozzu mangiari- chiese Sarineju
al padre, il quale senza indugiare lo invitò a mangiare.
Sarineju, così come i suoi fratelli, ingurgitò la
pastina in brodo e le polpettine di pollo, poi con gli occhi rivolti ancora al
padre fece intendere che voleva continuare, mettendo mano ai cosciotti al petto
e alle e ali. Ciccu diede cenno di assenso. Seguirono crocchette di riso e
patate, poi melangiani chini, formaggio e per la prima volta videro sulla
tavola una provola intera. Il padre ne affettò un po’ e la diede ai figli ormai
sfamati e intenti a ingoiare quanto si poneva alla loro visione. Masticavano e
si guardavano. Gli sguardi s’incocciavano silenti. Tutto sembrava irreale,
quegli odori di cibi avevano rotto il tanfo di muffe e di terra.
Era rimasto niente nelle insalatiere. La sazietà
traspariva dai volti di grandi e piccini. Il silenzio, ora sì, donava pensieri
al morto.
Sarineju poggio la testa sul braccio del padre,
Ciccu si girò e lo guardò, nei piccoli occhi neri lesse sazietà, e
rilassatezza.
Il ragazzo si alzò, si avvicinò all’orecchio del
padre e sottovoce, per evitare l’ascolto agli altri, chiese:
-Patri, e ora quando mori 'a nonna?