Il politico oppidese morì il 20 febbraio del
1893 in circostanze drammatiche a seguito dello scandalo della Banca Romana; la
tesi più accreditata, e forse quella vera, è che cessò di vivere a causa di complicanze
cardiache. (cit. Rocco Liberti - Quaderni
Mamertini).
Altra ipotesi, la meno accreditata, è che si tolse
la vita a seguito di quello scandalo che segnò la vita politica dell’Italia di
fine ‘800.
Il 29 agosto del 1929, su La Stampa, il
giornalista Luigi Lodi ha tracciato un profilo, con occhio contemporaneo, del
giornalista-politico-letterato, Rocco De Zerbi.
All’epoca dei fatti, Lodi, era il direttore
del settimanale “La Nuova Rassegna”, ma nell’ottobre del 1983 dava alle stampe
il primo numero del quotidiano “Il Don Chisciotte di Roma”.
Mi limito a trascrivere fedelmente tutto l’articolo,
la lettura della copia originale sarebbe complicata.
LA TRAGEDIA DI ROCCO DE ZERBI
(-Ricordi
Personali-La Stampa, 29 agosto 1929)
Si è stampato, in questi giorni, che Pietro
Mascagni ha ripreso a comporre “La Vestilia” (romanzo di De Zerbi ndr), per
terminarla. Ha ripreso perché - non riesce inutile chiarirlo - a musicarla si
accinse più di trent’anni orsono, fresco ancora del trionfo della “Cavalleria
Rusticana”. E spesso - specie nel tempo passato - agli amici faceva sentire le
pagine che diceva già composte. Alcuni degli
ascoltatori ebbero il sospetto - non rilevato- che egli, a tratti, in quelle esecuzioni
improvvisasse. Comunque, a tornarvi sopra sembrava non pensasse più; si era già
di tanto dal mondo greco-romano. Adesso assicura che vuol condurre a
termine lo spartito, ti auguriamo sia
così; il pubblico che non ha mai frequentato con tanto fervore I teatri lirici,
aspetta chiede novità. Intanto, poiché molte cose sono dimenticate, non sarà
inopportuno aggiungere che l’argomento della Vestilia è offerto da un romanzo di Rocco de Zerbi, il
quale per molti rispetti fu una persona molto significativa.
Il direttore del “Piccolo”
Calabrese
di nascita, aveva appartenuto all’Esercito e poi si era stabilito a Napoli, per farvi giornalista.
Forse avrebbe preferito esercitare esclusivamente la professione di scrittore;
possedeva varia, se non solida, cultura E ambiva segnatamente la fama di
letterato. Si era formato uno stile
colorito e incisivo se non rigorosamente corretto; aveva qualità di oratore che
ne fecero un conferenziere applaudito; maneggiava abbondantemente la immagine e
sapeva anche valersi di citazioni calzanti, più o meno autentiche.
Ma se
divenne deputato, conquistando a Napoli una clientela fida, se esercitò a volte un’azione positiva negli avvenimenti
cittadini, fu perché direttore del “Piccolo”,
il giornale suo.
C’erano,
allora, nella capitale del Mezzogiorno, altri giornali, che avevano lettori
convinti e scrittori ben quotati: il Corriere del Mattino diretto da Martino
Cafiero, temperamento sincero di artista; il Pungolo al quale il Comin conferiva autorità politica; il Roma, cui
procurava larga diffusione la riconosciuta indipendenza del suo proprietario.
Ma il Piccolo era e rimase, finché almeno non comparve il Corriere, redatto da
Edoardo Scarfoglio e da Matilde Serao, il monitore della classe eletta e, sino
a un certo segno, dirigente. Gli avvenne pure, per brevi periodi, di avere
collaboratori di primissimo valore, quali appunto, la Serao e Vincenzo Morello,
e all’ultimo si arricchì di un corrispondente da Roma davvero eccezionale e che
divenne poi ripetutamente Ministro, Vincenzo Riccio. Ma il Piccolo, che restava
un foglio di vecchio stampo, a scarsa tiratura (poche migliaia di copie)
derivava la sua forza dall’articolo di Rocco De Zerbi.
Era
questo articolo che si cercava ed ammirava incondizionatamente. Poteva pure
giovarsi di altri attributi per accrescere la sua fama; sapeva trovare la frase
e trovare il gesto.
La polemica con Carducci
Delle
sue conferenze, infatti, celermente dimenticate, una frase si ricordò
lungamente, quella del “ bagno di sangue”
indispensabile per conseguire il reale rinnovamento della Nazione.
Dei suoi
gesti ne citerò uno. All’indomani dalla prima rappresentazione del “Lohengrin” al
San Carlo, si aspettava di leggere quello che il Piccolo ne avrebbe stampato.
Ma il Piccolo uscì con tre righe sol, press’a poco queste:
- Wagner non è Rossini;
- Wagner
non è Bellini;
- Wagner
è Dio.
- Domani
parleremo del “Lohengrin”.
E gli
ammiratori, a leggere queste righe,
esclamavano:- Egli è grande. Conosceva il suo pubblico e se lo coltivava. Aveva
pure un’altra dote per cattivarselo: era animoso. Basta rammentare il coraggio
da lui dimostrato mettendosi in polemica con Giosuè Carducci intorno a Tibullo
e alla lirica Latina. Dicono ci fosse chi gli forniva i materiali eruditi, ma
non fa nulla; egli assumeva la responsabilità di quanto mandava al “Fanfulla
della Domenica” e avrebbe proseguito nel contrasto, se Ferdinando Martini non
fosse uscito con l’imperativo:- Passiamo
a Properzio.
Anche
allora fra i fedeli napoletani non mancarono parecchi i quali, per conto
loro, conclusero:-ne ha dette quattro al
poeta di Satana.
Ma egli,
forse perché ne aveva goduto tanto largamente, era ormai sazio di quei
successi. Mirava più in alto. Mostravasi
in possesso di una sicura agiatezza; nelle conversazioni accennava
volentieri ai beni suoi, che avrebbe avuto nel modenese e anche nella Romagna.
Aveva preso casa a Roma portandovi pure la famiglia; era diventato passivo di
Montecitorio; ricordava frequentemente il suo passato mi uomo di destra. Si era
accontentato di essere Deputato, deputato invariabilmente ministeriale:
intendeva di salire. Quando il Gabinetto di Rudinì si decompose e non riuscì a
ricomporsi, nella primavera del 1892, lo trovai in Piazza Colonna in colloquio
con Achille Fazzari: patrocinava la propria candidatura a Ministro della
Marina. Pochi giorni dopo era venuto il primo Gabinetto Giolitti, ed egli
volle, dai banchi di Destra appunto, pronunciare un discorso di opposizione,
discorso demolitore, come era stato il 4 maggio, quello del Martini. Correva,
evidentemente, differenza tra i due oratorie differente, infatti, fu l’effetto:
e il Gabinetto Giolitti rimase. Non si sgomentò egli per questo; proseguì a
frequentare la Camera, a insistere nei colloqui per i corridoi, a cercarsi
amici, segnatamente tra i giornalisti. Sentiva, si sarebbe detto, avvicinarsi l’ora
sua.
La Banca Romana
Invece,
a distanza di pochi mesi, nel gennaio dl 1893, precipitò la catastrofe della
Banca Romana. La storia intera di questo istituto, che tuttavia il privilegio
della emissione, sarebbe curiosa e, magari, salvo nella tragedia, pure
divertente. Non questo, però, il luogo. Basti rammentare che dal Governo pontificio,
nel 1830, fu fondata a Parigi, con capitali francesi e pure francesi erano gli
amministratori a Roma. La concessione aveva, contrattualmente, la durata di
ventuno anni, ma avanti che scadesse, il Governo volle crearne un’altra non di
origine straniera. Si era fissato che il capitale iniziale di questa dovesse
arrivare a un milione di scudi. Non ci si giunse e fu forza contentarsi di
600.000 scudi. Così incominciò nel ’50 e si tirò avanti alla meglio e anche,
più spesso, alla peggio, finché arrivò lo Stato Italiano. Questo conservò l’Istituto,
riconfermandogli la facoltà della emissione. A sentire certi avversari mai
aveva potuto diventare veramente sano e forte, per colpa Belle privilegiate
famiglie alle quali, dagli inizi, era asservito. Ma, limitato nei mezzi, Senza
possibilità di espansione territoriale, la sua azione doveva essere
necessariamente modesta. Si restringeva quasi esclusivamente nel soccorrere il
credito laziale. E per alcuni anni non diede pretesto a rumori. Questi
incominciarono ed ingrossarono più tardi quando della banca era governatore
Bernardo Tanlongo. Egli originava da una sottospecie della gente romana di
allora, ormai quasi interamente scomparsa, quella dei mercanti di campagna;
prendeva in affitto dai prìncipi proprietari vaste tenute pagando assai poco di
canone E occupandosi di agricoltura presso che soltanto sfruttando I pecorai.
Si faticava poco E si guadagnava assai. Perché proprio a lui, con tali
precedenti, si pensasse di affidare le sorti della Banca, non fu chiarito mai. Certo egli poteva vantarsi di essere un
esperto in materia di caccia, la sua passione vera. Di tecnica bancaria, col
tempo, aveva acquisito queste due sole idee chiamiamole pure così:-la
circolazione monetaria è troppo scarsa ai bisogni del paese: la “ riscontrata”
è un male che va tolto di mezzo.
Due biglietti da mille
Poiché,
circa l’aumento del medio circolante, nessuno gli dava retta un bel giorno
penso di provvedere da sé. Circa i modi con cui provvedeva si accorse, per primo,
Sidney Sonnino. Diligente osservatore di tutto, egli constatò di possedere due
biglietti, da 1000 lire, della Banca Romana, che recavano lo stesso numero di
serie e di ordine. Non c’era dubbio dunque: la serie era doppia. Alieno dai
clamori, specie allorché potevano danneggiare il credito pubblico, egli diede
privatamente notizia della constatazione compiuta al Ministro competente. Parve
si volessero prendere misure gravi, o almeno si minacciarono; ma poi si finì
con l’accogliere la spiegazione data da don Bernardo: si trattava un semplice
errore dei fabbricatori inglesi dei biglietti, errore già riparato perché egli
aveva fatto ritirare e distruggere quella serie non voluta. Rimaneva la
faccenda della “riscontrata” E anche se per essa applicava un espediente l’iniziativa
propria. Poiché riscontro con i biglietti della Banca Nazionale giacenti negli
altri istituti di emissione non compivasi nel medesimo giorno, egli si era
accordato con commendator Cuciniello, direttore della sede romana del Banco di
Napoli. Figura non trascurabile pure questa del Cuciniello. A vederlo, a sentirlo, aveva il più rigido
degli amministratori. Finì, però, con un processo per sottrazione di fondi e
quando gli agenti, che dovevano arrestarlo, giunsero, dopo lunghe ricerche a
scoprirlo, era vestito da prete nella casa di una sarta, sua buona, troppo
buona amica. E questi non sono che due episodi per quanto caratteristici. Ma
sulle condizioni, disastrose, la banca, si parlava da tempo. Ministro del Tesoro,
nel gabinetto Crispi, l’Onorevole Giolitti ordinò un’inchiesta, che fu
precisamente l’inchiesta Alvisi, rivelatrice di in qualificabili disordini. In
seguito, però, si penso di non pubblicarla per evitare uno scandalo, che
avrebbe avuto ripercussioni durissime sull’economia nazionale.
Il
signor Bernardo Tanlongo si mantenne, pertanto, tranquillo nel suo ufficio,
Dove passava molte ore del giorno, così che da casa si faceva portare la
colazione, colazione frugalissima. Vi riceveva anche molte persone, quasi
sempre di mediocre o infima categoria: sedicenti amici di uomini politici
quali, non autorizzati, spendevano la protezione; sedicenti pubblicisti, che
abusavano del nome di quelli veri. Con tali ausili egli si sentiva sicuro:
anzi, da lì a poco apparve trionfatore, perché, nell’autunno del 1892, ebbe posto
al Senato. Senatore lui, mentre il Grillo, direttore generale della Banca
Nazionale, non lo era!
Ma anche
quel suo Campidoglio era vicina la rupe.
Il
senatore Alvisi, seccato che la sua relazione rimanesse sempre inedita, la
passò all’on. Wollemborg e questi a Prinetti e il Prinetti al Colajanni.
Si crecò
di evitare ancora il troppo clamore: non potendo più tenere in piedi la Banca
Romana, si tentò di fonderla con la Nazionale. Le negoziazioni corsero e
parvero giunte alla conclusione imposta. Ma nella sera proprio in cui il
Consiglio di Amministrazione della Nazionale era riunito per fissare
definitivamente i patti e i modi della fusione, arrivò, inatteso, Costanzo
Chattevet, che delle trattative prime aveva avuto l’incarico. Era evidentemente
molto eccitato e disse soltanto: - Non se ne può fare nulla, hanno rubato nove
milioni!
C’erano
i milioni fino a due giorni avanti, ma non si trovavano più. Lo scandalo, il
processo erano, dopo ciò inevitabili. Vero che tutti gli imputati, compreso un
funzionario confessò di essersi appropriato di alcune decine di migliaia di
lire, tutti più tardi furono egualmente assolti.
Arresti e denunzie
Poche
settimane dopo lo scatenamento dell’uragano, io accompagnavo alla Posta della
Camera l’on. Silvestri, ansioso di aver notizie del come la sua signora avesse
passato la notte. L’ufficio postale, modestissimo, era allora all’ingresso del
palazzo, pressoché, quindi all’esterno. Anche di lì, però, si poteva avvertire
come all’interno ci fosse una intensa e eccezionale agitazione.
Da
parecchio tempo, del resto, tutta la città era agitata, convulsa. Avevano arrestato
il commendatore Bernardo Tanlongo, arrestato il commendatore Cesare Lazzaroni,
rispettivamente governatore il cassiere della banca. E non bastava: si
annunziavano, o si credeva di poter preannunziare, le catture di alti
funzionari del Ministero di Agricoltura. Il guardasigilli, onorevole Bonacci,
uomo rigidissimo, realmente rettilineo, in Consiglio dei Ministri si assicurava
che, alle prime rivelazioni avesse esclamato: -cada il mondo, Ma giustizia sia
fatta.
E fin
dove sarebbe arrivata la giustizia? Fuori c’erano quelli che pensavano all’interesse
privato eppure a quello collettivo: gli azionisti della banca che intuivano
perduto il loro capitale; commercianti, agricoltori, che vedevano crollato l’istituto
da cui attingevano credito. A Montecitorio, soprattutto si confondevano gli
odi, le speranze, i timori di origini; ritenevasi certo che molti, tra i
maggiori, sarebbero stati compromessi, letteralmente abbattuti. E si facevano i
nomi, si godeva la gioia di inevitabili precipizi eminenti. Quante orribile
calunnia onestamente diffuse in quei giorni! La commissione dei Sette, affidata
a galantuomini, uscì poco dopo da quelle aspettazioni di scandali, da quei
desideri di vendetta.
Eravamo,
dunque, l’amico Silvestri ed io, indifferenti al tumulto crescente intorno,
davanti allo sportello dell’ufficio postale, quando comparve Rocco de Zerbi.
Incominciò,
senz’altro, col darci la notizia che tutti conoscevano dal giorno avanti:-fra
pochi minuti, disse ad alta voce,si leggerà nell’aula la domanda di
autorizzazione a procedere contro di me. Io, proprio io solo, dovrei essere il
rapinatore della Banca Romana!
E
continuava a vociferare, a tratti quasi gridando; non era manifestamente
padrone di sé. Ripeteva convulsamente di voler intervenire nella discussione;
di rivelare colpe, complicità non perseguite; se la pigliava con il ministero
attribuendogli di volersi vendicare dell’opposizione fattagli; malediceva
colleghi, che avrebbero dimenticato benefici da lui generosamente resi loro.
Procurare di fargli comprendere che a Montecitorio non doveva restare; che
aveva bisogno di riposo e di silenzio. Fortunatamente finì col lasciarsi
trascinare fuori, e salire in una carrozza per essere condotto a casa.
Non ne
uscì, credo, Che una volta sola nei giorni seguenti, per andare dal giudice
istruttore. E può dirsi fosse questo l’atto estremo della sua esistenza. Dopo
quarantott’ore da quel primo interrogatorio, era defunto: si era ucciso.
Se era colpevole si è giustiziato
Aveva
lasciato un grosso plico indirizzato a un amico in cui, si assicurava avesse
sposta la sua difesa. Ma ora che era scomparso l’uomo non parve opportuno
rendere pubblico l’ultimo suo scritto. Tutto di lui e per lui era ben finito. Ai
suoi funerali assistettero tre soli deputati, uno dei quali, Il marchese Di
Rudinì, che disse: - Se era colpevole si è giustiziato.
Ma la
tragedia di lui non chiuse il dramma intorno alla Banca, anzi, a certe ore
parve acuirsi en invelenire. Una crisi di Gabinetto sembrò poca cosa in
confronto delle attese accumulato. Ma poi, a distanza di alcuni, pochissimi
mesi, non se ne parlò più; o appena a soddisfazione di curiosità aneddotiche.
Un anno
dopo lo scandalo enorme, che si era annunziato purificatore, io chiesi al
commendatore Grillo, direttore generale della Banca Nazionale: -ebbene, dopo l’inchiesta
dei sette e le condanne da essa pronunciate, hanno mutato i costumi
parlamentari?
-
Mutamento, egli rispose, c’è stato; prima scrivevano adesso, quando vogliono
qualche cosa, telefonano.
Forse
aveva ragione lui, Rocco De Zerbi; ci voleva, per un’Italia nuova, un bagno di
sangue.
(Luigi
Lodi)
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